domenica 27 gennaio 2013

Lettera aperta all'Assessore Scilabra sulla questione della formazione

Illustre Assessore,
la questione della 'formazione professionale' (forse si dovrebbe dire lo 'scandalo') si sta imponendo all'attenzione dell'opinione pubblica regionale grazie alle importanti e nette prese di posizione Sue e del Presidente della Regione. Indagini della magistratura, blocco dei fondi, trasferimento di gran parte dei dirigenti del settore segnano un crescendo quasi drammatico. Il rischio è però che la questione venga assorbita in una dimensione scandalistica che oscuri la riflessione sul merito del problema.
La sua azione può favorire, finalmente, un processo di radicale trasformazione di una settore di attività, certamente strategico per lo sviluppo della nostra Regione, che vede impegnati anche tanti onesti lavoratori, la cui posizione occupazionale va attentamente salvaguardata, che presenta però tutta una serie di guasti, noti purtroppo ormai da parecchio tempo, sia agli addetti ai lavori, sia ai cittadini più attenti ai problemi dell’Isola. È nota l'indagine condotta dalla Commissione speciale dell'Assemblea Regionale (2011); sono note, in particolare, le requisitorie della Corte dei Conti, che ripetutamente (2007, 2009, 2010) ha osservato che «i corsi in realtà servivano più agli enti che ai frequentanti», i quali li abbandonavano in alto numero (più del 30% di abbandoni nel 2008). In sostanza, i risultati raggiunti dal sistema della formazione professionale siciliana sono stati assai scarsi, sia dal punto di vista degli sbocchi occupazionali, sia da quello puramente formativo. Nelle sue conclusioni, la Commissione speciale dell’ARS notava: «in sostanza si può affermare che il sistema appare costituito sulla crescita esponenziale della spesa pubblica, indirizzato a creare posti di lavoro, a prescindere dalle esigenze effettive del mercato del lavoro e della qualità dei servizi erogati».
Ripensare la formazione, per ricondurla ai suoi veri scopi, richiede, a mio avviso, una ridefinizione radicale del settore. Tre i soggetti che possono svolgere un ruolo di protagonisti del cambiamento: le associazioni degli imprenditori, le associazioni sindacali e l'università. Ciascuno per il ruolo che gli è proprio, i tre soggetti dovrebbero essere immediatamente mobilitati se non si vuole che il processo si areni. Agli imprenditori e ai sindacati va richiesta la costruzione di un piano di formazione strettamente legato ai concreti bisogni del territorio e quindi alle reali opportunità di inserimento nel mondo del lavoro. Senza il pieno e responsabile coinvolgimento delle parti sociali lo spreco di risorse continuerà ineluttabile.
Anche l'università può fornire un efficace contributo alla costruzione di un nuovo sistema, finalmente efficiente, della formazione professionale in Sicilia. Alle istituzioni universitarie può, infatti, essere affidato l'accreditamento degli enti e il controllo di qualità dei corsi. Ciò, sulla base di valutazioni di natura esclusivamente scientifico-pedagogica, utilizzando al meglio quel patrimonio di sapere e di metodo che l’università, istituzionalmente, detiene e diffonde. Nella relazione della Commissione speciale dell'ARS si legge: «il degrado del sistema della formazione è dipeso anche da un sistema di accreditamento che ha consentito l’ingresso di soggetti privi di strutture adeguate, di esperienza e di professionalità misurabili. Il sistema di accreditamento è ancora oggi aperto a tutti, in quanto a tutti possono essere rilasciati “accreditamenti provvisori” che permettono la partecipazione ai bandi e l’erogazione dei finanziamenti regionali senza un minimo di verifica ispettiva, causando un accrescimento esponenziale del numero di enti provvisoriamente accreditati». La maggior parte degli enti di formazione in effetti agisce in regime di 'provvisorietà'.
Illustre Assessore, la mia proposta fa seguito a una precedente lettera aperta indirizzata al Presidente della Regione, all’indomani della sua elezione, con cui lo invitavo a considerare l'università una risorsa per il territorio. La 'formazione professionale' è il primo terreno concreto, credo, in cui può essere attivata una virtuosa sinergia istituzionale per aiutare la nostra Regione ad affrontare e risolvere i tanti gravi problemi che la attanagliano.
Confidando nella Sua attenzione, le porgo i miei più cordiali saluti.
Enrico Iachello

venerdì 25 gennaio 2013

Un nuovo rettore o il grande dittatore? Discutendo con Giacomo Pignataro


Lo scorso 7 dicembre, in un intervento pubblicato in questo stesso blog (dal titolo Docenza e amministrazione), rivolgevo un invito a tutti coloro che intendono candidarsi alla carica di rettore del nostro Ateneo, e in particolare al collega Giacomo Pignataro. Un invito ad approfondire l’analisi delle problematiche che caratterizzano l’attuale difficile fase del sistema universitario, ad analizzare a fondo il contenuto di una riforma che può non piacere, ma che è legge dello Stato e che pertanto va osservata, a tenere in assoluta considerazione lo stato decrescente delle risorse finanziarie, in particolare di quelle derivanti dalla fiscalità generale. Un invito, in sostanza, a evitare iniziative di stampo elettoralistico, di impronta meramente demagogica, volte a guadagnare consenso ingannando l’elettorato con un “libro dei sogni”. In sintesi, dicevo: «occorre, a tutti noi, fare i conti con la realtà; non si può provare a vincere raccontando le favole, perché poi non si governa, perché poi non si è in condizione di soddisfare in alcun modo coloro che ci hanno votato cavalcando l’onda emozionale di ‘proclami’ di per sé irrealizzabili, sia per vincoli di legge, sia per indisponibilità di risorse finanziarie».

Ho avuto modo di approfondire il contenuto e il senso del mio invito, rivolto ai potenziali candidati alla carica di rettore, in varie occasioni pubbliche e anche in un recente incontro vis-à-vis con il collega Pignataro. Mi era sembrato che l’amico Giacomo trovasse convincente e condivisibile il mio invito del 7 dicembre. Mi rendo conto che quell’invito sembra oggi essere caduto nel vuoto. Ma non dispero, e di fronte al proliferare, tanto incalzante quanto incontrollato, di ‘proclami’ provenienti dal collega, provo nuovamente a ripetere il mio ragionamento e confido in maggiore successo: repetita iuvant!

Rammento, anzitutto a me stesso, che di qui a un mese saremo chiamati a eleggere il nuovo rettore. Che si tratti del principale organo dell’Ateneo non v’è dubbio. Che si tratti di un ruolo di grande responsabilità e di assoluto prestigio, in particolare per ciò che concerne il coordinamento delle attività didattiche e scientifiche dell’Ateneo, non ci sarebbe neppure bisogno di dirlo. E però, come ho già avuto modo di osservare, con un motto di spirito, in una recente intervista, non stiamo andando a eleggere «né Robespierre, né Napoleone», né – tanto meno – stiamo pensando a una nuova caricatura del ‘grande dittatore’… per quella ci ha già pensato, con indiscusso successo, il mitico Charlie Chaplin.

Abbandonando la facezia, ciò che intendo sottolineare è che il ruolo del rettore è un ruolo delicatissimo, che richiede grande equilibrio, che non può non caratterizzarsi per la capacità di ‘fare squadra’, anzitutto con tutti gli altri organi dell’Ateneo, nel rispetto delle competenze per ciascuno di essi disegnate dalla legge di riforma e riprodotte nel nostro Statuto. Lo dico alla luce della lunga e formativa esperienza di coordinatore di un’importante e complessa struttura didattica (l’ex Facoltà di Lettere e Filosofia), un’esperienza che è certamente mancata al collega Pignataro; lo dico nell’interesse generale del nostro Ateneo: una ‘macchina’ complessa e articolata, che va guidata con saggezza, evitando logoranti contrapposizioni istituzionali, che certamente non aiutano ad affrontare l’attuale momento critico (per l’intero Paese e per il sistema universitario, in particolare), a superare i tanti problemi quotidiani con la necessaria concordia.

E veniamo alle incessanti proposte di riforma statutaria avanzate dal collega Pignataro, che a sommarle tutte fanno immaginare una prossima profonda ‘riscrittura’ del nostro Statuto, per di più secondo una linea in palese contrasto con tanti aspetti della legge di riforma. Torno a dire, e lo dico da consigliere di amministrazione oltre che da candidato alla carica di rettore: «non c’è in Italia alcuna forza politica, seriamente candidata al governo del Paese (basta leggere i programmi elettorali), che intenda porre mano, nell’immediato, a una profonda rimeditazione della riforma universitaria, e soprattutto che abbia in agenda una ‘controriforma’ della recente riforma, notoriamente bipartisan. Anche i ‘nostalgici’ se ne facciano una ragione; il lavoro che ora ci attende consiste nell’applicare al meglio la riforma, per trarre dalle nuove prassi che sapremo adottare un’opportunità di miglioramento del nostro ‘essere Università’. Ciò vale anche a livello locale: il nostro Ateneo ha attraversato – non senza scossoni – la stagione della riforma statutaria, voluta dalla legge Gelmini. Tale stagione ha impegnato tutti noi, ci ha appassionato e si è oggi ‘storicizzata’: non vedo negli organi di Ateneo a cui compete la revisione statutaria, il Senato accademico e il Consiglio di amministrazione, da poco eletti con le nuove regole e in carica sino al 2016 (e che hanno espresso a larghissima maggioranza piena fiducia al rettore per l’azione svolta nell’intero corso della riforma statutaria), alcuna frenesia di prodursi in un nuovo esercizio costituente. Il che mi sembra assai ragionevole, considerata la naturale ‘rigidità’ di ogni esperienza statutaria. Avviamoci, quindi, con convinzione, anche critica, nella pratica dell’Università riformata, trovando per tale via le soluzioni più adeguate al nostro agire quotidiano; evitiamo di avvitarci – com’è tipico della peggiore politica – in un perpetuo, e spesso inconcludente, discorso sulle regole del ‘gioco’. Piuttosto, sperimentiamole ‘giocando’: rimbocchiamoci le maniche, esercizio – questo sì – assai impellente in un momento così difficile per l’intera Nazione, mettendo sempre più impegno nel nostro lavoro, nella didattica, nella ricerca, nei servizi, per venire fuori dalla crisi, presto e bene, per provare ad avviare nuovi percorsi di crescita, superando le tante difficoltà congiunturali che oggi ‘ingessano’ l’azione del nostro Ateneo. Ci sarà tempo, esaurita la sperimentazione, per ritornare a discutere delle regole (ivi comprese le norme statutarie che disciplinano le modalità di scelta dei consiglieri di amministrazione) e per correggere quelle che hanno fatto peggiore prova».
Anche il collega Pignataro se ne faccia una ragione, ma soprattutto lo comprendano quei suoi eventuali elettori, che intendessero ancora esprimergli il loro consenso perché si aspettano un’immediata riscrittura dello Statuto, che non potrà esserci per le ragioni sopra illustrate.

Quanto poi alla ‘rivoluzione organizzativa’ prospettata dal collega Pignataro, anche in questo caso rinvio al mio documento del 7 dicembre 2012. Troverete lì le ragioni normative che hanno prodotto la riorganizzazione amministrativa del marzo 2012; sempre lì, gli indiscutibili vantaggi che da essa sono derivati a salvaguardia dell’equilibrio di bilancio; il contributo che la stessa ha dato per la valorizzazione professionale del personale tecnico-amministrativo, componente fondamentale della nostra comunità universitaria; le proposte concrete, praticabili sia dal punto di vista normativo, sia in termini di copertura finanziaria, volte a superare le criticità che il nuovo modello organizzativo ha fatto emergere, ma senza «scomodarci in riforme statutarie, che rischiano soltanto di rallentare i processi, condannandoci a un’infinita transizione, per ripristinare le ‘segreterie amministrative dei dipartimenti’ del tempo che fu e l’afferenza (invero mai prevista) del personale tecnico-amministrativo ai dipartimenti».
Invito il collega Pignataro a dare uno sguardo a tali proposte, considerando anche che si tratta di tematiche, strettamente connesse alla complessiva gestione e organizzazione dei servizi, delle risorse strumentali e del personale tecnico-amministrativo dell’Ateneo, certamente affidate dal legislatore (quello della riforma universitaria, ma anche quello del testo unico sul pubblico impiego) a competenze diverse rispetto a quelle rettorali, che vedono principalmente coinvolti il management universitario (la dirigenza e, in particolare, il direttore generale) sulla base degli indirizzi forniti dal consiglio di amministrazione.
A meno che il prof. Pignataro non intenda proporsi per la carica di direttore generale, ma forse preferirebbe addirittura quella di amministratore unico dell’Ateneo! Premesso che la carica di direttore generale è già coperta per i prossimi anni, con ottimo apprezzamento da parte degli altri organi di Ateneo, il collega Pignataro sembra proporsi come un direttore purtroppo affetto da qualche forma di ‘strabismo’: sembra cioè troppo sensibile alle pretese restauratrici, non del sindacato – istituzione nobile e imprescindibile, soprattutto in un momento di complessiva crisi del Paese – bensì di qualche poco apprezzabile dirigente sindacale, che forse vive ancora il rammarico di avere perso le ‘rendite di posizione’ godute in passato; risulta, invece, assai poco attento alle esigenze reali dei lavoratori e alla salvaguardia dell’occupazione. Ciò vale, anzitutto, per i tanti lavoratori che l’Ateneo ha avviato in questi anni verso la definitiva fuoriuscita dal precariato (e mi duole ricordare che la prima delibera in tal senso del Consiglio di amministrazione, quella riguardante il personale TD, assunta il 7 settembre 2010, non trovò il voto favorevole dei rappresentanti del personale tecnico-amministrativo che facevano parte di quel Consiglio, ma forse è più corretto indicarli quali sindacalisti della CISL e della UIL) . Lo dico a chiare lettere, senza mezzi termini: i processi di stabilizzazione che riguardano il personale TD e il personale PUC, ma anche il personale LSU (ivi compresi i lavoratori ex Coem e Marketing Sud) e gli operai agricoli vanno condotti a termine, per tutti i lavoratori interessati, senza se e senza ma. Come ho già avuto modo di dire, tale ambizioso progetto (più unico che raro in questa fase storica di ristrettezze economiche), condotto coraggiosamente dall’Ateneo in sintonia con le organizzazioni sindacali, a partire dalla CGIL, è reso possibile dalle economie prodotte «dal trasferimento a carico del servizio sanitario del personale impiegato dal Policlinico. La vertenza con la Regione Siciliana assume a questo punto i connotati di una ‘battaglia di sopravvivenza’, nell’interesse dei precari dell’Ateneo, che attendono di essere stabilizzati, e dell’Ateneo nel suo complesso, che può trarre linfa vitale per il suo sviluppo. Al nuovo Governo regionale questa situazione va rappresentata con la massima urgenza: ne va della vita del sistema universitario regionale».

Rivolgo, infine, un ultimo suggerimento al collega Pignataro, con riferimento alla sua proposta, lanciata alle ricercatrici e ai ricercatori dell’Università di Catania, concernente un fantomatico «processo di chiamata diretta degli abilitati (ai sensi dell’articolo 29 comma 4 della legge 240/2010, e poi del D.M. 15/12/2011 e sgg.)». Che il prof. Pignataro non sia un giurista ce lo ha ricordato lui stesso in una recente intervista. Neanche io sono un giurista, ma proprio per questo, prima di avventurarmi in proposte, che magari finiscono col produrre mal riposte aspettative, mi consulto con i giuristi, con gli addetti ai lavori, provando a ‘fare squadra’ anche con loro. Ebbene, mi creda il prof. Pignataro, l’art. 29, comma 4, della legge 240/2010 non c’entra proprio niente con i ricercatori che conseguiranno l’abilitazione scientifica nazionale per professore associato, riguardando invero gli idonei nelle valutazioni comparative ai sensi della legge 210/1998, e comunque prima dell’entrata in vigore dei regolamenti di Ateneo in materia di procedure di chiamata.
I ricercatori a tempo indeterminato del nostro Ateneo, che conseguiranno l’abilitazione scientifica nazionale, potranno tuttavia godere di una procedura diversa da quella “di chiamata”, che dicesi procedura “di valutazione”, e non perché lo proclama il prof. Pignataro, bensì perché è prevista dall’ordinamento (art. 24, commi 5 e 6, della legge 240/2010 e D.M. 4 agosto 2011, n. 344), è espressamente citata nel recentissimo decreto interministeriale del 28 dicembre 2012 (in materia di piano straordinario per la chiamata di professori di seconda fascia), è perfettamente nota al Consiglio di amministrazione.
Enrico Iachello

domenica 20 gennaio 2013

Riflessioni e proposte su ricercatori a tempo indeterminato e personale tecnico-amministrativo precario


La questione dei ricercatori pre-riforma Gelmini (oggi si prevede un altro status, con la fine del reclutamento di ricercatori a tempo indeterminato) ha costituito e costituisce un tema ‘caldo’, che è opportuno affrontare con chiarezza se si vuole davvero ridefinire l'identità del nostro Ateneo in un progetto di sviluppo territoriale. È importante provare a ricompattare le nostre forze, risolvendo alcuni nodi delicati che riguardano il personale docente. La questione dei ricercatori non può più essere elusa perché rischia di trasformarsi in un pantano destinato a rendere più acuti i problemi. La questione è emersa, a mio avviso in modo errato, a partire dal presunto obbligo del compenso da corrispondere al ricercatore impegnato in attività didattica (il ruolo non prevede la tenuta di un corso di insegnamento come compito istituzionale obbligatorio). Dobbiamo, credo, evitare un approccio 'moralistico' o comunque astratto e riflettere sui processi concreti che hanno fatto sì che gran parte dei ricercatori a tempo indeterminato siano stati chiamati negli anni a svolgere compiti didattici fondamentali per gli Atenei. In molti casi si tratta di insegnamenti che hanno reso possibile il mantenimento dell'offerta formativa altrimenti irrealizzabile a causa del blocco del turn over. Faccio un esempio: a breve, nell'ex facoltà di Lettere e Filosofia, a causa dei pensionamenti, non ci sarà un professore di Letteratura greca, ma un ricercatore. Tutti ci auguriamo che le abilitazioni nazionali portino a sanare questa situazione, ma nell'attesa? Dovremo confidare nella disponibilità del ricercatore, che fortunatamente, nel caso, assicura il suo impegno didattico.
L'esempio dovrebbe servire a far comprendere la complessità del problema che ci sta di fronte e a evitare di affrontarlo appunto con facili moralismi o proclami di principio per poi essere costretti però a imboccare vie di fuga di emergenza.
Nel nostro Ateneo la questione è sembrata, come accennavo, ridursi esclusivamente al pagamento o meno degli insegnamenti svolti dai ricercatori. È solo un aspetto, e non il più urgente, della questione (fermo restando che non c’è affatto nulla di male – compatibilmente con le disponibilità di bilancio, oggi invero assai esigue – nel prevedere un riconoscimento economico per i colleghi responsabilmente impegnati nell’assolvimento di un maggiore carico didattico). Parlando con i colleghi ricercatori mi sono reso conto che molti di essi sarebbero disposti a svolgere senza alcuna retribuzione aggiuntiva questa attività didattica (e nei fatti molti hanno sottoscritto una dichiarazione in cui affermano la disponibilità a rinunciare al compenso). La questione è in effetti un'altra, ed è il riconoscimento della funzione di 'professore' che dia piena gratificazione professionale a una componente fondamentale della docenza universitaria. Facile a dirsi, difficile a farsi. E tuttavia questo resta il vero nodo se non vogliamo lasciare in sofferenza parte consistente dei colleghi ed essere costretti a ridurre drasticamente la nostra offerta formativa.
Occorre affrontare e sciogliere questo nodo e prevedere, sia pure nei limiti attualmente consentiti dalla crisi finanziaria e senza sconvolgere la gerarchia accademica (cioè la distinzione per fasce che significa un percorso di carriera meritocratico senza il quale l'Università perde la sua identità), questo riconoscimento. Se si accoglie questa posizione come ragionevole scelta politica ormai ineludibile, la soluzione 'tecnica', nei binari sopra enunciati, si potrà trovare, magari istituendo una terza fascia di ricercatori-professori. Ovviamente non è soluzione di carattere 'locale', ma la Conferenza dei rettori potrebbe metterla all'ordine del giorno. Non si tratta, va ribadito, di mettere in discussione la meritocrazia, o di inventare sanatorie e simili. Si tratta di legittimare un processo ormai storicamente consolidato per consentire all'università di affrontare con serenità e maggior compattezza tra le varie componenti i problemi che la crisi del Paese ci costringe ad affrontare. Non sono un 'tecnico', ma ribadisco il convincimento che la scelta 'politica' sia importante e da qui bisognerebbe avviare il confronto con il Ministero. Ovviamente, in tal modo la palla sembra rinviata al 'centro', inutile nasconderselo, e poiché il gioco non mi attira (e potrebbe evidentemente apparire solo una mossa 'elettorale'), mi chiedo intanto cosa possa farsi a livello locale, cioè nel nostro Ateneo. A me pare percorribile un’ipotesi che, facendosi forte del principio della continuità didattica, riconosca di fatto una 'titolarità' dell'insegnamento al ricercatore che l'ha tenuto per un certo numero di anni (cinque, ad esempio). Gli organi dell'Ateneo, Senato Accademico e Consiglio di Amministrazione, potrebbero deliberare in tal senso, invitando i dipartimenti a tenerne conto nella programmazione dell'offerta formativa e dei compiti didattici. Non credo che manchino nei fatti gli strumenti per rendere l'indicazione 'concreta'. Si avrebbe così, in attesa di una risposta del legislatore, un riconoscimento di fatto della funzione di 'professore', ovviamente con l'accordo del singolo ricercatore, che accetterebbe nei fatti l'insegnamento come proprio compito istituzionale.

Analogamente, mi limito per adesso a un accenno, in una logica di compiuta valorizzazione di tutte le componenti della comunità universitaria, bisognerà affrontare la questione del personale tecnico-amministrativo, per favorire una piena sinergia tra chi, nell’Università, è impegnato direttamente nell’attività didattica e di ricerca e chi supporta tale attività assicurando i servizi. Ciò, a partire dal problema del precariato e della sua stabilizzazione. Superando mille difficoltà, giuridiche ed economiche, l’Ateneo si sta già muovendo in questa direzione (è notizia recente l’immissione in ruolo, a tempo indeterminato, dei primi 10 lavoratori PUC; nuove stabilizzazioni di lavoratori TD e PUC sono già state deliberate dal Consiglio di amministrazione; una soluzione di maggiore serenità è stata individuata, in sinergia con la Prefettura e con le Organizzazioni sindacali, anche per i lavoratori ex Coem ed ex Marketing Sud). Ma occorre insistere, assicurare continuità all’azione già intrapresa. Ebbene, anche per risolvere questa questione occorre una scelta chiara ed equa, che miri a garantire tutti e che possa, pertanto, essere da tutti responsabilmente condivisa: mantenere una corretta proporzione nella destinazione dei punti organico che si liberano per cessazioni e pensionamenti (pur nella riduzione consistente del turn over che è stata imposta dalle recenti norme di legge in materia di spending review), salvaguardando il settore di provenienza delle cessazioni (settore tecnico-amministrativo e corpo docente), per rendere via via possibili stabilizzazioni e reclutamenti.

Enrico Iachello

mercoledì 16 gennaio 2013

Appello per la Biblioteca 'Civica - A. Ursino Recupero'



Cari Colleghi,
la situazione della Biblioteca 'Civica - A. Ursino Recupero', la cosa è ormai di dominio pubblico, è drammatica. Rischiamo di perdere un patrimonio culturale di inestimabile valore e importanza. Credo che, accanto alla mobilitazione dell'opinione pubblica e della stampa locale e nazionale, spetti a noi agire concretamente per rispondere all'emergenza che la prestigiosa istituzione quotidianamente vive.
Vi propongo di dar vita a un servizio di volontariato per garantire l'apertura giornaliera della biblioteca. Basterebbe che ciascuno di noi si dichiarasse disponibile almeno per due ore al mese per dare un segnale forte di impegno a sostegno di una istituzione rilevantissima per noi, per gli studenti e per la città. La biblioteca è il nostro laboratorio ed è tratto forte della nostra identità culturale.
Enrico Iachello



sabato 12 gennaio 2013

Gruppi di ricerca Lend


(Intervento di Edvige Costanzo, Vice presidente nazionale di LEND)



Tra i 43 gruppi attualmente attivi nel Lend nazionale (Lingua e nuova didattica, associazione che propone ricerca e sperimentazione nelle scuole di ogni ordine e grado, accreditata presso il MIUR come Ente formatore) vi è, dal 2007, anche quello di Catania che ha intrapreso uno scambio proficuo con la Facoltà di Lettere, (oggi Dipartimento di Scienze Umanistiche), grazie all’intraprendenza e alla disponibilità dell’allora preside Enrico Iachello, tramite un protocollo d’intesa e una convenzione, rinominandosi quindi Unilend, per trovare piattaforme comuni di scambi tra il sistema universitario e la rete di scuole primarie e secondarie.
Proprio al Monastero dei Benedettini è stata organizzata, il 14 novembre 2008, una giornata pedagogico-didattica sull’intercultura e la didattica delle lingue, in cui si sono alternati con successo relatori internazionali, laboratori articolati su esperienze didattiche affrontate dai corsisti SISSIS insieme ai loro tutor, e buone pratiche registrate nelle scuole.
A Catania inoltre, scelta importante per il territorio, si è tenuto per la prima volta il convegno nazionale del Lend, fortemente sostenuto da Enrico Iachello, sul tema Educazione linguistica e approccio per competenze, convogliando nella città docenti di tutta la regione e delle regioni del Sud, oltre ai gruppi Lend delle principali città italiane. Le tre giornate di studi (29-30-31 ottobre 2009) sono state determinanti per riconfigurare una nuova prospettiva delle forme, degli obiettivi e delle metodologie grazie anche alla presenza di relatori che svolgono la loro attività in seno al Consiglio d’Europa.
Altra tappa importante per la città di Catania: il seminario CLIL (22 e 23 aprile 2010), per il quale c’è stata la collaborazione attiva di docenti del territorio e di esperti internazionali che hanno lavorato sulla tematica in oggetto in termini di contributi, di esperienze, progetti e pratiche didattiche. La riforma della scuola secondaria superiore prevede l’introduzione del CLIL e quindi si rendeva necessaria una giornata di formazione partendo dalle esperienze realizzate sul territorio siciliano.
E, ultima in ordine di tempo ma non per questo meno importante, la giornata pedagogica del 22 ottobre 2012, Imparare a certificare: quali competenze per il docente?, che ha ripreso, in parte, la tematica CLIL correlandola al plurilinguismo e prendendo in esame le aeree trasversali e le competenze chiave per l’apprendimento permanente e la qualità dell’istruzione. Sono stati presentati anche i futuri progetti europei ed è stata proposta, con enorme successo, una tavola rotonda tra imprenditori, dirigenti e rappresentanti delle istituzioni scolastiche e accademiche per un confronto propositivo e per gettare le basi di più solide e proficue collaborazioni tra mondo del lavoro, scuole e università.
Un augurio, dunque, a Enrico Iachello, per il suo futuro e perché possa con eguale entusiasmo e competenza continuare a lavorare al sostegno di progetti qualificanti per il territorio.

Edvige Costanzo

giovedì 10 gennaio 2013

A proposito di tasse e di servizi per gli studenti



Questa estate grande clamore e timore suscitò la possibilità, tra gli effetti previsti della spending review, dell'aumento delle tasse universitarie. I media, nazionali e locali, si espressero – come sovente avviene – con tono allarmistico e raccolsero qualche protesta anticipata. È il modo sbagliato con cui molti commentatori reagiscono alla crisi: da una parte, dichiarano ineludibili il rigore e i sacrifici; dall'altra, come nello specifico, suscitano paure che producono panico nei cittadini. Certo, se non entriamo nell'ottica della gravità della situazione, che impone e imporrà comunque sacrifici a tutti noi, non saremo in grado di uscire dalla crisi. Questa è la precondizione per affrontare il dramma che il Paese sta vivendo; serve cioè un approccio che metta in conto i sacrifici che ciascuno di noi dovrà fare. Ma a una condizione: che i sacrifici siano sopportabili e lascino intravedere un percorso di trasformazione virtuosa. Altrimenti, tutto diviene un incubo, e l'allarme sociale rischia di esplodere in reazioni violente.
Con questa premessa di metodo, va affrontata anche la questione delle tasse studentesche, e in particolare degli studenti fuori corso.
Intanto, va chiarito che nel nostro Ateneo le tasse, per l’anno accademico 2012-2013, sono state fissate senza alcun aumento, neppure in termini di adeguamento ISTAT, rispetto all’anno precedente. Possiamo quindi affrontare la questione confrontandoci – democraticamente e costruttivamente – con gli studenti, con tutta serenità. In precedenti interventi ho già sostenuto che l'Università deve fare il massimo sforzo per ricompattare tutte le sue componenti se vuole svolgere un ruolo significativo nell'affrontare la crisi, salvando se stessa ma anche dando un contributo al Paese sul come uscirne in modo positivo. È ovvio quindi che qualsiasi scelta relativa alle tasse va condivisa con gli studenti, componente essenziale e ‘centrale’, ragion d’essere principale del mondo universitario.
In linea di principio, prevedere una maggiore contribuzione a carico degli studenti fuori corso non è una via affatto illogica: producono un maggiore costo, nel tempo, per il sistema universitario e incidono negativamente sui ricavi, giacché riducono la quota ‘premiale’ dell'FFO spettante all’Ateneo presso cui sono iscritti. Ma quando si parla di ‘fuori corso’ non si può né si deve cadere in generalizzazioni ‘di categoria’. Più correttamente, occorre per lo meno distinguere lo studente che va ‘fuori corso’ perché lavoratore dagli altri. È chiaro che chi lavora per mantenersi agli studi non può essere trattato alla stregua degli altri studenti. Con lo studente lavoratore, anziché aumentargli le tasse quando dovesse risultare ‘fuori corso’, va piuttosto concordato sin dall’inizio della sua carriera universitaria un percorso formativo che gli consenta di conseguire in un tempo ragionevole (che non può essere quello fissato per lo studente ‘a tempo pieno’) il titolo di studio. Ciò non significa consentirgli di conseguire un’inutile laurea 'facilitata', ma impone di fornirgli, da parte dell’Università, un servizio mirato, idoneo a conciliare l’impegno nel lavoro e l’impegno nello studio. In concreto, l’Università deve definire insieme allo studente lavoratore modi e tempi ‘personalizzati’ di acquisizione e di verifica delle competenze previste dal corso di studio: non semplicemente – come già avviene – con appelli riservati, ma prevedendo una diversa articolazione del percorso formativo, anche attraverso la suddivisione in ‘moduli’ degli insegnamenti.
Un percorso ‘personalizzato’, in realtà, andrebbe previsto per tutti gli studenti ‘fuori corso’, individuando le ragioni che hanno prodotto il rallentamento degli studi, costruendo insieme allo studente un ‘calendario’ di attività, volto a favorire il migliore completamento degli studi, stabilendo semmai un aumento delle tasse soltanto per coloro che non abbiano rispettato il percorso concordato e calendarizzato. Ciò realizza sia l’interesse dell'Università, sia quello dello studente. In tal modo, eventuali aumenti di tasse troverebbero legittimazione nel miglioramento del servizio formativo, insito nel percorso individualizzato.
Ma la nuova previsione normativa in ordine al possibile aumento delle tasse universitarie non riguarda soltanto i ‘fuori corso’; apre invero alla possibilità che ciascun ateneo stabilisca un aumento delle tasse per tutti gli studenti universitari, anche quelli in corso, a esclusione – ma soltanto fino al 2016 – di coloro il cui reddito familiare sia inferiore ai 40 mila euro l'anno. Nell’applicare questa norma, bisogna essere assai cauti. Vero è che va sempre più calando il finanziamento degli studi universitari coperto dalla fiscalità generale (dal 2008 al 2013, la quota di FFO spettante al nostro Ateneo è precipitata del 19%, corrispondente a una perdita di 38 milioni di euro), ma altrettanto vero è che il costo della crisi generale non può ribaltarsi su chi vive in un contesto territoriale, qual è il nostro, che sta già subendo le drammatiche conseguenze di una crisi che si aggiunge a una storica condizione di sofferenza economica e occupazionale.
A ogni modo, a qualsiasi eventuale aumento delle tasse (comunque contenuto nei limiti dello stretto necessario) deve corrispondere un miglioramento dei servizi, interni ed esterni all’Università, dedicati agli studenti. Ciò vale anzitutto per i servizi formativi universitari: orientamento, didattica e tutoraggio devono sempre più mettere realmente al centro del sistema universitario lo studente, devono sempre più e sempre meglio vedere impegnata l’intera comunità universitaria nel far sì che i nostri studenti possano completare il loro percorso di studio nei tempi previsti, acquisendo una formazione che risulti adeguatamente spendibile per il loro ingresso nel mondo del lavoro (il che significa anche rivedere l’offerta formativa del nostro Ateneo, razionalizzando il contenuto specifico di ciascun percorso di studi).
D’altro canto, se la Regione Siciliana riuscisse a svolgere il ruolo di ‘ammortizzatore’, in particolare, com'è sua prerogativa, attraverso una politica di diritto allo studio veramente incisiva, allora Università e studenti potrebbero vedere almeno ridotto il loro stato di difficoltà. Da ciò deriva l’impellente necessità di sviluppare un confronto sereno e serrato con l'ERSU: il suo nuovo presidente è senza alcun dubbio un riferimento che lascia – a partire dai suoi primi atti – ben sperare, conoscendo e stimando da tempo il collega Alessandro Cappellani. A tal proposito, pongo intanto una prima questione: la mensa studentesca in centro storico, dove insitono le facoltà umanistiche, è ormai servizio ineludibile. Affrontiamo insieme il problema per trovare la soluzione. Analogamente, con il Comune di Catania, e con le municipalità dell’hinterland, va affrontata la questione della mobilità studentesca e del personale universitario (con il connesso dramma dei parcheggi). Quel che accade attorno ai Benedettini, a Villa Cerami, a Palazzo delle Scienze è un problema che l’Università patisce (non avendo strumenti propri per risolverlo); è una questione di tutta la città. E ancora, non possiamo lasciare soli i nostri studenti di fronte al problema ‘storico’ della ricerca di un alloggio e a quello del ‘caro-affitti’: anche in questo caso, la sinergia con l’ERSU e con il Comune può risultare decisiva.
Non ho, è evidente, soluzioni preconfezionate e definitive per i problemi qui affrontati. Indico linee di azione, metodologie e percorsi per provare a risolverli. Questo approccio ha sempre caratterizzato la mia azione istituzionale in Ateneo, e continuerà a caratterizzarla, a maggior ragione, di fronte a una crisi che rimette seriamente in discussione diritti che consideravamo acquisiti, prospettive di sviluppo che ritenevamo a portata di mano. Rischiamo tutti che la casa ci crolli addosso. Il panico e le urla non servono. Serve una mobilitazione collettiva, unitaria, responsabile, paziente e intelligente.

Enrico Iachello

giovedì 3 gennaio 2013

Dialoghi fra Umanesimo e Scienze

Vi invito a partecipare al primo incontro del ciclo Ponti/Bridges, perché appare sempre più inattuale la separazione fra Scienze Umane e Scienze Naturali.