Questa
estate grande clamore e timore suscitò la possibilità, tra gli
effetti previsti della spending review, dell'aumento delle tasse
universitarie. I media, nazionali e locali, si espressero – come
sovente avviene – con tono allarmistico e raccolsero qualche protesta
anticipata. È il modo sbagliato con cui molti commentatori
reagiscono alla crisi: da una parte, dichiarano ineludibili il rigore
e i sacrifici; dall'altra, come nello specifico, suscitano paure
che producono panico nei cittadini. Certo, se non entriamo
nell'ottica della gravità della situazione, che impone e imporrà
comunque sacrifici a tutti noi, non saremo in grado di uscire dalla
crisi. Questa è la precondizione per affrontare il dramma che il
Paese sta vivendo; serve cioè un approccio che metta in conto i
sacrifici che ciascuno di noi dovrà fare. Ma a una condizione: che i
sacrifici siano sopportabili e lascino intravedere un percorso di
trasformazione virtuosa. Altrimenti, tutto diviene un incubo, e
l'allarme sociale rischia di esplodere in reazioni violente.
Con
questa premessa di metodo, va affrontata anche la questione delle
tasse studentesche, e in particolare degli studenti fuori corso.
Intanto,
va chiarito che nel nostro Ateneo le tasse, per l’anno accademico
2012-2013, sono state fissate senza alcun aumento, neppure in termini
di adeguamento ISTAT, rispetto all’anno precedente. Possiamo quindi
affrontare la questione confrontandoci – democraticamente e
costruttivamente – con gli studenti, con tutta serenità. In
precedenti interventi ho già sostenuto che l'Università deve fare
il massimo sforzo per ricompattare tutte le sue componenti se vuole
svolgere un ruolo significativo nell'affrontare la crisi, salvando se
stessa ma anche dando un contributo al Paese sul come uscirne in modo
positivo. È ovvio quindi che qualsiasi scelta relativa alle tasse va
condivisa con gli studenti, componente essenziale e ‘centrale’,
ragion d’essere principale del mondo universitario.
In
linea di principio, prevedere una maggiore contribuzione a carico
degli studenti fuori corso non è una via affatto illogica: producono un
maggiore costo, nel tempo, per il sistema universitario e incidono
negativamente sui ricavi, giacché riducono la quota ‘premiale’
dell'FFO spettante all’Ateneo presso cui sono iscritti. Ma quando
si parla di ‘fuori corso’ non si può né si deve cadere in
generalizzazioni ‘di categoria’. Più correttamente, occorre per
lo meno distinguere lo studente che va ‘fuori corso’ perché
lavoratore dagli altri. È chiaro che chi lavora per mantenersi
agli studi non può essere trattato alla stregua degli altri
studenti. Con lo studente lavoratore, anziché aumentargli le
tasse quando dovesse risultare ‘fuori corso’, va piuttosto
concordato sin dall’inizio della sua carriera universitaria un
percorso formativo che gli consenta di conseguire in un tempo
ragionevole (che non può essere quello fissato per lo studente ‘a
tempo pieno’) il titolo di studio. Ciò non significa
consentirgli di conseguire un’inutile laurea 'facilitata', ma
impone di fornirgli, da parte dell’Università, un servizio mirato,
idoneo a conciliare l’impegno nel lavoro e l’impegno nello
studio. In concreto, l’Università deve definire insieme allo
studente lavoratore modi e tempi ‘personalizzati’ di acquisizione
e di verifica delle competenze previste dal corso di studio: non
semplicemente – come già avviene – con appelli riservati, ma
prevedendo una diversa articolazione del percorso formativo, anche
attraverso la suddivisione in ‘moduli’ degli insegnamenti.
Un
percorso ‘personalizzato’, in realtà, andrebbe previsto per
tutti gli studenti ‘fuori corso’, individuando le ragioni che
hanno prodotto il rallentamento degli studi, costruendo insieme allo
studente un ‘calendario’ di attività, volto a favorire il
migliore completamento degli studi, stabilendo semmai un aumento
delle tasse soltanto per coloro che non abbiano rispettato il
percorso concordato e calendarizzato. Ciò realizza sia l’interesse
dell'Università, sia quello dello studente. In tal modo, eventuali
aumenti di tasse troverebbero legittimazione nel miglioramento del
servizio formativo, insito nel percorso individualizzato.
Ma
la nuova previsione normativa in ordine al possibile aumento delle
tasse universitarie non riguarda soltanto i ‘fuori corso’; apre
invero alla possibilità che ciascun ateneo stabilisca un aumento
delle tasse per tutti gli studenti universitari, anche quelli in
corso, a esclusione – ma soltanto fino al 2016 – di coloro il cui
reddito familiare sia inferiore ai 40 mila euro l'anno.
Nell’applicare questa norma, bisogna essere assai cauti. Vero è
che va sempre più calando il finanziamento degli studi universitari
coperto dalla fiscalità generale (dal 2008 al 2013, la quota di FFO
spettante al nostro Ateneo è precipitata del 19%, corrispondente a
una perdita di 38 milioni di euro), ma altrettanto vero è che il
costo della crisi generale non può ribaltarsi su chi vive in un
contesto territoriale, qual è il nostro, che sta già subendo le
drammatiche conseguenze di una crisi che si aggiunge a una storica
condizione di sofferenza economica e occupazionale.
A
ogni modo, a qualsiasi eventuale aumento delle tasse (comunque
contenuto nei limiti dello stretto necessario) deve corrispondere un
miglioramento dei servizi, interni ed esterni all’Università,
dedicati agli studenti. Ciò vale anzitutto per i servizi formativi
universitari: orientamento, didattica e tutoraggio devono sempre più
mettere realmente al centro del sistema universitario lo studente,
devono sempre più e sempre meglio vedere impegnata l’intera
comunità universitaria nel far sì che i nostri studenti possano
completare il loro percorso di studio nei tempi previsti, acquisendo
una formazione che risulti adeguatamente spendibile per il loro
ingresso nel mondo del lavoro (il che significa anche rivedere
l’offerta formativa del nostro Ateneo, razionalizzando il contenuto
specifico di ciascun percorso di studi).
D’altro
canto, se la Regione Siciliana riuscisse a svolgere il ruolo di
‘ammortizzatore’, in particolare, com'è sua prerogativa,
attraverso una politica di diritto allo studio veramente incisiva,
allora Università e studenti potrebbero vedere almeno ridotto il
loro stato di difficoltà. Da ciò deriva l’impellente necessità
di sviluppare un confronto sereno e serrato con l'ERSU: il suo nuovo
presidente è senza alcun dubbio un riferimento che lascia – a
partire dai suoi primi atti – ben sperare, conoscendo e stimando da
tempo il collega Alessandro Cappellani. A tal proposito, pongo
intanto una prima questione: la mensa studentesca in centro storico,
dove insitono le facoltà umanistiche, è ormai servizio ineludibile.
Affrontiamo insieme il problema per trovare la soluzione.
Analogamente, con il Comune di Catania, e con le municipalità
dell’hinterland, va affrontata la questione della mobilità
studentesca e del personale universitario (con il connesso dramma dei
parcheggi). Quel che accade attorno ai Benedettini, a Villa Cerami, a
Palazzo delle Scienze è un problema che l’Università patisce (non
avendo strumenti propri per risolverlo); è una questione di tutta la
città. E ancora, non possiamo lasciare soli i nostri studenti di
fronte al problema ‘storico’ della ricerca di un alloggio e a
quello del ‘caro-affitti’: anche in questo caso, la sinergia con
l’ERSU e con il Comune può risultare decisiva.
Non
ho, è evidente, soluzioni preconfezionate e definitive per i
problemi qui affrontati. Indico linee di azione, metodologie e
percorsi per provare a risolverli. Questo approccio ha sempre
caratterizzato la mia azione istituzionale in Ateneo, e continuerà a
caratterizzarla, a maggior ragione, di fronte a una crisi che rimette
seriamente in discussione diritti che consideravamo acquisiti,
prospettive di sviluppo che ritenevamo a portata di mano. Rischiamo
tutti che la casa ci crolli addosso. Il panico e le urla non servono.
Serve una mobilitazione collettiva, unitaria, responsabile, paziente
e intelligente.
Enrico
Iachello
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