La
questione dei ricercatori pre-riforma Gelmini (oggi si prevede un
altro status, con la fine del reclutamento di ricercatori a tempo
indeterminato) ha costituito e costituisce un tema ‘caldo’, che è
opportuno affrontare con chiarezza se si vuole davvero ridefinire
l'identità del nostro Ateneo in un progetto di sviluppo
territoriale. È importante provare a ricompattare le nostre forze,
risolvendo alcuni nodi delicati che riguardano il personale docente.
La questione dei ricercatori non può più essere elusa perché
rischia di trasformarsi in un pantano destinato a rendere più acuti
i problemi. La questione è emersa, a mio avviso in modo errato, a
partire dal presunto obbligo del compenso da corrispondere al
ricercatore impegnato in attività didattica (il ruolo non prevede la
tenuta di un corso di insegnamento come compito istituzionale
obbligatorio). Dobbiamo, credo, evitare un approccio 'moralistico' o
comunque astratto e riflettere sui processi concreti che hanno fatto
sì che gran parte dei ricercatori a tempo indeterminato siano stati
chiamati negli anni a svolgere compiti didattici fondamentali per gli
Atenei. In molti casi si tratta di insegnamenti che hanno reso
possibile il mantenimento dell'offerta formativa altrimenti
irrealizzabile a causa del blocco del turn over. Faccio un
esempio: a breve, nell'ex facoltà di Lettere e Filosofia, a causa
dei pensionamenti, non ci sarà un professore di Letteratura greca,
ma un ricercatore. Tutti ci auguriamo che le abilitazioni nazionali
portino a sanare questa situazione, ma nell'attesa? Dovremo confidare
nella disponibilità del ricercatore, che fortunatamente, nel caso,
assicura il suo impegno didattico.
L'esempio
dovrebbe servire a far comprendere la complessità del problema che
ci sta di fronte e a evitare di affrontarlo appunto con facili
moralismi o proclami di principio per poi essere costretti però a
imboccare vie di fuga di emergenza.
Nel
nostro Ateneo la questione è sembrata, come accennavo, ridursi
esclusivamente al pagamento o meno degli insegnamenti svolti dai
ricercatori. È solo un aspetto, e non il più urgente, della
questione (fermo restando che non c’è affatto nulla di male –
compatibilmente con le disponibilità di bilancio, oggi invero assai
esigue – nel prevedere un riconoscimento economico per i colleghi
responsabilmente impegnati nell’assolvimento di un maggiore carico
didattico). Parlando con i colleghi ricercatori mi sono reso conto
che molti di essi sarebbero disposti a svolgere senza alcuna
retribuzione aggiuntiva questa attività didattica (e nei fatti molti
hanno sottoscritto una dichiarazione in cui affermano la
disponibilità a rinunciare al compenso). La questione è in effetti
un'altra, ed è il riconoscimento della funzione di 'professore' che
dia piena gratificazione professionale a una componente fondamentale
della docenza universitaria. Facile a dirsi, difficile a farsi. E
tuttavia questo resta il vero nodo se non vogliamo lasciare in
sofferenza parte consistente dei colleghi ed essere costretti a
ridurre drasticamente la nostra offerta formativa.
Occorre
affrontare e sciogliere questo nodo e prevedere, sia pure nei limiti
attualmente consentiti dalla crisi finanziaria e senza sconvolgere la
gerarchia accademica (cioè la distinzione per fasce che significa un
percorso di carriera meritocratico senza il quale l'Università perde
la sua identità), questo riconoscimento. Se si accoglie questa
posizione come ragionevole scelta politica ormai ineludibile, la
soluzione 'tecnica', nei binari sopra enunciati, si potrà trovare,
magari istituendo una terza fascia di ricercatori-professori.
Ovviamente non è soluzione di carattere 'locale', ma la Conferenza
dei rettori potrebbe metterla all'ordine del giorno. Non si tratta,
va ribadito, di mettere in discussione la meritocrazia, o di
inventare sanatorie e simili. Si tratta di legittimare un processo
ormai storicamente consolidato per consentire all'università di
affrontare con serenità e maggior compattezza tra le varie
componenti i problemi che la crisi del Paese ci costringe ad
affrontare. Non sono un 'tecnico', ma ribadisco il convincimento che
la scelta 'politica' sia importante e da qui bisognerebbe avviare il
confronto con il Ministero. Ovviamente, in tal modo la palla sembra
rinviata al 'centro', inutile nasconderselo, e poiché il gioco non
mi attira (e potrebbe evidentemente apparire solo una mossa
'elettorale'), mi chiedo intanto cosa possa farsi a livello locale,
cioè nel nostro Ateneo. A me pare percorribile un’ipotesi che,
facendosi forte del principio della continuità didattica, riconosca
di fatto una 'titolarità' dell'insegnamento al ricercatore che l'ha
tenuto per un certo numero di anni (cinque, ad esempio). Gli organi
dell'Ateneo, Senato Accademico e Consiglio di Amministrazione,
potrebbero deliberare in tal senso, invitando i dipartimenti a
tenerne conto nella programmazione dell'offerta formativa e dei
compiti didattici. Non credo che manchino nei fatti gli strumenti per
rendere l'indicazione 'concreta'. Si avrebbe così, in attesa di una
risposta del legislatore, un riconoscimento di fatto della funzione
di 'professore', ovviamente con l'accordo del singolo ricercatore,
che accetterebbe nei fatti l'insegnamento come proprio compito
istituzionale.
Analogamente,
mi limito per adesso a un accenno, in una logica di compiuta
valorizzazione di tutte le componenti della comunità universitaria,
bisognerà affrontare la questione del personale
tecnico-amministrativo, per favorire una piena sinergia tra chi,
nell’Università, è impegnato direttamente nell’attività
didattica e di ricerca e chi supporta tale attività assicurando i
servizi. Ciò, a partire dal problema del precariato e della sua
stabilizzazione. Superando mille difficoltà, giuridiche ed
economiche, l’Ateneo si sta già muovendo in questa direzione (è
notizia recente l’immissione in ruolo, a tempo indeterminato, dei
primi 10 lavoratori PUC; nuove stabilizzazioni di lavoratori TD e PUC
sono già state deliberate dal Consiglio di amministrazione; una
soluzione di maggiore serenità è stata individuata, in sinergia con
la Prefettura e con le Organizzazioni sindacali, anche per i
lavoratori ex Coem ed ex Marketing Sud). Ma occorre insistere,
assicurare continuità all’azione già intrapresa. Ebbene, anche
per risolvere questa questione occorre una scelta chiara ed equa, che
miri a garantire tutti e che possa, pertanto, essere da tutti
responsabilmente condivisa: mantenere una corretta proporzione nella
destinazione dei punti organico che si liberano per cessazioni e
pensionamenti (pur nella riduzione consistente del turn over
che è stata imposta dalle recenti norme di legge in materia di
spending review), salvaguardando il settore di provenienza
delle cessazioni (settore tecnico-amministrativo e corpo docente),
per rendere via via possibili stabilizzazioni e reclutamenti.
Enrico
Iachello
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