domenica 20 gennaio 2013

Riflessioni e proposte su ricercatori a tempo indeterminato e personale tecnico-amministrativo precario


La questione dei ricercatori pre-riforma Gelmini (oggi si prevede un altro status, con la fine del reclutamento di ricercatori a tempo indeterminato) ha costituito e costituisce un tema ‘caldo’, che è opportuno affrontare con chiarezza se si vuole davvero ridefinire l'identità del nostro Ateneo in un progetto di sviluppo territoriale. È importante provare a ricompattare le nostre forze, risolvendo alcuni nodi delicati che riguardano il personale docente. La questione dei ricercatori non può più essere elusa perché rischia di trasformarsi in un pantano destinato a rendere più acuti i problemi. La questione è emersa, a mio avviso in modo errato, a partire dal presunto obbligo del compenso da corrispondere al ricercatore impegnato in attività didattica (il ruolo non prevede la tenuta di un corso di insegnamento come compito istituzionale obbligatorio). Dobbiamo, credo, evitare un approccio 'moralistico' o comunque astratto e riflettere sui processi concreti che hanno fatto sì che gran parte dei ricercatori a tempo indeterminato siano stati chiamati negli anni a svolgere compiti didattici fondamentali per gli Atenei. In molti casi si tratta di insegnamenti che hanno reso possibile il mantenimento dell'offerta formativa altrimenti irrealizzabile a causa del blocco del turn over. Faccio un esempio: a breve, nell'ex facoltà di Lettere e Filosofia, a causa dei pensionamenti, non ci sarà un professore di Letteratura greca, ma un ricercatore. Tutti ci auguriamo che le abilitazioni nazionali portino a sanare questa situazione, ma nell'attesa? Dovremo confidare nella disponibilità del ricercatore, che fortunatamente, nel caso, assicura il suo impegno didattico.
L'esempio dovrebbe servire a far comprendere la complessità del problema che ci sta di fronte e a evitare di affrontarlo appunto con facili moralismi o proclami di principio per poi essere costretti però a imboccare vie di fuga di emergenza.
Nel nostro Ateneo la questione è sembrata, come accennavo, ridursi esclusivamente al pagamento o meno degli insegnamenti svolti dai ricercatori. È solo un aspetto, e non il più urgente, della questione (fermo restando che non c’è affatto nulla di male – compatibilmente con le disponibilità di bilancio, oggi invero assai esigue – nel prevedere un riconoscimento economico per i colleghi responsabilmente impegnati nell’assolvimento di un maggiore carico didattico). Parlando con i colleghi ricercatori mi sono reso conto che molti di essi sarebbero disposti a svolgere senza alcuna retribuzione aggiuntiva questa attività didattica (e nei fatti molti hanno sottoscritto una dichiarazione in cui affermano la disponibilità a rinunciare al compenso). La questione è in effetti un'altra, ed è il riconoscimento della funzione di 'professore' che dia piena gratificazione professionale a una componente fondamentale della docenza universitaria. Facile a dirsi, difficile a farsi. E tuttavia questo resta il vero nodo se non vogliamo lasciare in sofferenza parte consistente dei colleghi ed essere costretti a ridurre drasticamente la nostra offerta formativa.
Occorre affrontare e sciogliere questo nodo e prevedere, sia pure nei limiti attualmente consentiti dalla crisi finanziaria e senza sconvolgere la gerarchia accademica (cioè la distinzione per fasce che significa un percorso di carriera meritocratico senza il quale l'Università perde la sua identità), questo riconoscimento. Se si accoglie questa posizione come ragionevole scelta politica ormai ineludibile, la soluzione 'tecnica', nei binari sopra enunciati, si potrà trovare, magari istituendo una terza fascia di ricercatori-professori. Ovviamente non è soluzione di carattere 'locale', ma la Conferenza dei rettori potrebbe metterla all'ordine del giorno. Non si tratta, va ribadito, di mettere in discussione la meritocrazia, o di inventare sanatorie e simili. Si tratta di legittimare un processo ormai storicamente consolidato per consentire all'università di affrontare con serenità e maggior compattezza tra le varie componenti i problemi che la crisi del Paese ci costringe ad affrontare. Non sono un 'tecnico', ma ribadisco il convincimento che la scelta 'politica' sia importante e da qui bisognerebbe avviare il confronto con il Ministero. Ovviamente, in tal modo la palla sembra rinviata al 'centro', inutile nasconderselo, e poiché il gioco non mi attira (e potrebbe evidentemente apparire solo una mossa 'elettorale'), mi chiedo intanto cosa possa farsi a livello locale, cioè nel nostro Ateneo. A me pare percorribile un’ipotesi che, facendosi forte del principio della continuità didattica, riconosca di fatto una 'titolarità' dell'insegnamento al ricercatore che l'ha tenuto per un certo numero di anni (cinque, ad esempio). Gli organi dell'Ateneo, Senato Accademico e Consiglio di Amministrazione, potrebbero deliberare in tal senso, invitando i dipartimenti a tenerne conto nella programmazione dell'offerta formativa e dei compiti didattici. Non credo che manchino nei fatti gli strumenti per rendere l'indicazione 'concreta'. Si avrebbe così, in attesa di una risposta del legislatore, un riconoscimento di fatto della funzione di 'professore', ovviamente con l'accordo del singolo ricercatore, che accetterebbe nei fatti l'insegnamento come proprio compito istituzionale.

Analogamente, mi limito per adesso a un accenno, in una logica di compiuta valorizzazione di tutte le componenti della comunità universitaria, bisognerà affrontare la questione del personale tecnico-amministrativo, per favorire una piena sinergia tra chi, nell’Università, è impegnato direttamente nell’attività didattica e di ricerca e chi supporta tale attività assicurando i servizi. Ciò, a partire dal problema del precariato e della sua stabilizzazione. Superando mille difficoltà, giuridiche ed economiche, l’Ateneo si sta già muovendo in questa direzione (è notizia recente l’immissione in ruolo, a tempo indeterminato, dei primi 10 lavoratori PUC; nuove stabilizzazioni di lavoratori TD e PUC sono già state deliberate dal Consiglio di amministrazione; una soluzione di maggiore serenità è stata individuata, in sinergia con la Prefettura e con le Organizzazioni sindacali, anche per i lavoratori ex Coem ed ex Marketing Sud). Ma occorre insistere, assicurare continuità all’azione già intrapresa. Ebbene, anche per risolvere questa questione occorre una scelta chiara ed equa, che miri a garantire tutti e che possa, pertanto, essere da tutti responsabilmente condivisa: mantenere una corretta proporzione nella destinazione dei punti organico che si liberano per cessazioni e pensionamenti (pur nella riduzione consistente del turn over che è stata imposta dalle recenti norme di legge in materia di spending review), salvaguardando il settore di provenienza delle cessazioni (settore tecnico-amministrativo e corpo docente), per rendere via via possibili stabilizzazioni e reclutamenti.

Enrico Iachello

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