domenica 23 dicembre 2012
sabato 22 dicembre 2012
Archeologia, territorio, sviluppo economico
(Intervento del prof. Pietro Militello, Presidente del Corso di Laurea Magistrale in Archeologia)
La
lettera aperta inviata al presidente della Regione da parte del prof.
Belvedere suscita diversi spunti di riflessione. Non si può non
essere d’accordo sull’analisi relativa agli effetti negativi di
una concezione puramente burocratica della dirigenza dei beni
culturali che, falsamente accentuando l’aspetto manageriale della
gestione di Soprintendenze, Parchi archeologici e musei, pone in
secondo piano quello delle competenze
specifiche
e quello della necessaria conoscenza approfondita del territorio.
Allo stesso modo non si può che concordare sulla scarsa attenzione
posta alle possibilità di lavoro offerte dalla archeologia
preventiva e dalle possibilità di collaborazione di dipartimenti
universitari e di cooperative e associazioni di archeologi
qualificati. Considerazioni simili avevo espresso in passato
ribadendo la necessità di una politica che contemperasse le
esigenze degli attuali precari, ormai 35-40enni, con una strategia di
ampio respiro che individuasse percorsi certi e rigorosi per gli
archeologi del futuro. Nello stesso tempo, sottolineavo l’esigenza
che anche l’università cambiasse, per interagire strettamente con
Soprintendenze, Parchi archeologici e musei, e recepire le istanze
specifiche di formazione richieste a chi deve lavorare sul campo,
distribuendole nei diversi livelli (triennali, biennali,
specializzazione/dottorato), con specifiche possibilità di impiego.
In
questa sede vorrei però andare ancora oltre e allargare le
considerazioni a quello che l’Università può fare non solo per la
formazione ma anche per la gestione dei Beni Culturali. Da questo
punto di vista, i corsi universitari a tutti i livelli costituiscono
un bacino formidabile di energie che è miope trascurare. Giovani
volenterosi e desiderosi di mettersi in gioco potrebbero entrare con
un ruolo attivo nella gestione del patrimonio culturale già durante
il momento degli studi, e non solo al termine di esso. Dopo il
triennio, lo studente dei corsi di laurea in Beni Culturali o Lettere
si trova a possedere già una serie di competenze base in campo
archeologico o storico-artistico e mentre continua l’approfondimento
dei contenuti, necessita della opportuna pratica sul campo e fuori
dalle aule. Condizione che si accentua ulteriormente nelle Scuole di
Specializzazione. Crediamo che questa sia una splendida potenzialità
da sfruttare per abbattere il tradizionale gap che divide il mondo
universitario da quello del lavoro, per agevolare la cronica mancanza
di personale del comparto dei Beni Culturali, e per trovare un punto
di contatto tra giovani generazioni in formazione, letteralmente
affamate di tirocini, e una realtà di funzionari sommersi dal lavoro
e afflitti da mancanze di risorse.
Come ha dimostrato
l’esperienza senza dubbio positiva delle Officine Culturali per il
Monastero dei Benedettini, associazioni di giovani possono gestire
aree archeologiche o storico-artistiche, diventando economicamente
autosufficienti e senza gravare sul bilancio delle istituzioni.
Perché non facilitare questo tipo di associazione fin dagli anni
della formazione universitaria e utilizzare anche le competenze che
l’università possiede nel campo della economia e della gestione
dei Beni Culturali per lanciare progetti pilota che inseriscano nel
circuito turistico siti altrimenti destinati all’oblio e al
degrado? Purtroppo dobbiamo segnalare che in questo senso, il ritorno
a una centralizzazione della gestione dei siti archeologici non è
un segnale del tutto esente da ombre.
La
crisi ha un solo aspetto positivo, ed è che costringe a misurarsi
con la realtà e a non cullarsi nell’eredità passata, tirando
fuori il meglio da noi stessi. Nel campo dei Beni Culturali, una
visione più dinamica e meno centralizzata e un rapporto più franco
e aperto tra i principali attori di riferimento, Assessorato e Università, potrebbe fornire una soluzione, anche parziale, ai
problemi che affliggono le nuove generazioni di laureati in
discipline umanistiche e l’enorme patrimonio archeologico e
storico-artistico isolano.
Pietro Militello
lunedì 17 dicembre 2012
Amministrare i Beni Archeologici in Sicilia
Catania, 17 dicembre 2012
Caro Enrico,
ricevo dal prof. Oscar Belvedere, ordinario di Topografia Antica presso l'Università di Palermo una lettera, che qui allego, diretta al Presidente della Regione sulla difficile situazione dell'Amministrazione dei Beni Culturali, ed in particolare dei Beni Archeologici, in Sicilia. In qualità di Direttore della Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici della nostra Università, l'unica operante in Sicilia, mi sento di condividere la lettera e vorrei sottoporla alle tue riflessioni.
Un caro saluto
Massimo Frasca
(Lettera inviata dal prof. Oscar Belvedere al Presidente della Regione Sicilia)
Egregio sig. Presidente,
nel
momento in cui Ella sta iniziando il suo mandato di Presidente della
Regione, ci sembra opportuno sottoporre alla Sua attenzione, e a
quella del Governo, la drammatica situazione in cui versano i beni
culturali siciliani e lo stato di profonda crisi della
Amministrazione regionale dei Beni Culturali. Il momento ci appare
favorevole, perché potrebbe aprirsi per la Sicilia - con il nuovo
governo - una stagione di rinnovamento e di profonde riforme, che
mettano al passo l’isola con le altre regioni italiane ed europee.
La scelta di affiancarsi un’archeologa, ponendola a capo del suo
staff,
inoltre, ci sembra testimoni la particolare attenzione che il nuovo
Governo vorrà rivolgere al patrimonio culturale siciliano, alla sua
tutela e alla sua valorizzazione.
La
situazione generale della autonomia siciliana e in particolare quella
dei Beni Culturali, su cui la Regione ha competenza esclusiva in base
allo statuto, appare oggi talmente critica e negativa nei suoi
risultati, da indurre l’opinione pubblica nazionale a chiedersi se
questa larga autonomia, nata in anni lontani, e per motivazioni che
almeno in parte paiono superate, sia ancora sostenibile e soprattutto
utile al Paese e alla Sicilia stessa. La delusione e l’allontanamento
dalla politica regionale si sono, infatti, espressi nell’astensione
dal voto di larga parte dell’elettorato siciliano.
I
dubbi sulla efficacia dell’autonoma gestione regionale dei Beni Culturali sono stati aumentati da un efficace e polemico articolo sul
quotidiano «La Repubblica»
del prof. Salvatore Settis, che ha suscitato larga eco. Diciamo
subito francamente che anche noi siamo d’accordo sull’analisi
della situazione attuale fatta dal prof. Settis e condividiamo in
larga parte il contenuto dell’articolo.
Tuttavia,
noi vorremmo distinguere tra il primo periodo in cui fu costituita
l’amministrazione dei Beni Culturali, dal 1976 agli anni ‘90, che
consideriamo positivo e l’attuale situazione. Un periodo di
risultati effettivi, a nostro parere, che vide l’organizzazione
delle Soprintendenze provinciali, una per ciascuna delle nove
province, che certamente hanno dato un impulso notevole alla
conservazione, alla tutela e alla ricerca e anche al recupero e alla
manutenzione di moltissimi Beni Archeologici, Storico-artistici e Monumentali, all’apertura di nuove aree archeologiche,
all’istituzione di aree protette e parchi naturalistici, fino alla
legge istitutiva del Parco archeologico e paesaggistico di Agrigento
(D.P.R.S. 91/91).
Spartiacque
tra questa stagione positiva, che non va dimenticata, perché frutto
dell’impegno di tante persone, e anche di una fattiva
collaborazione con le Università, siciliane e non, e l’attuale
periodo, negativo sotto tanti aspetti, è la legge 10 del 2000, che
ha istituito la dirigenza unica e aperto la strada all’abolizione
dei ruoli tecnici all’interno della dirigenza.
L’esito
esiziale di questa legge, nella interpretazione che gli ultimi
governi regionali ne hanno dato, è l’incertezza dei ruoli, la
subordinazione della dirigenza regionale al potere politico di turno,
con la perdita della neutralità dell’amministrazione nei confronti
della politica. L’effetto più aberrante è che, una volta aboliti
i ruoli tecnici, qualsiasi dirigente regionale può essere chiamato a
dirigere qualsiasi cosa, a prescindere dalle competenze acquisite in
carriera e dai compiti assegnati all’ufficio cui è preposto. Nel
campo dei Beni Culturali avviene quindi che unità operative con
compiti specifici siano dirette da dirigenti, validi nel loro campo,
ma privi dei titoli di studio e del curriculum necessari per quella
posizione. E ciò si riflette sulla qualità dell’azione.
Incredibile
a dirsi, neanche nel comparto non dirigenziale esistono i ruoli
tecnici, poiché l’amministrazione regionale non si è mai dotata
di profili professionali; succede, dunque, che il preziosissimo
patrimonio culturale siciliano possa essere affidato a figure
professionali assolutamente generiche, cui non viene richiesta alcuna
specifica competenza.
L’ovvia
considerazione che, perché un’amministrazione funzioni, ciascuno
dovrebbe svolgere il ruolo per il quale ha competenza ed esperienza è
stata per anni talmente estranea all’amministrazione regionale dei
Beni Culturali che la sua semplice affermazione meriterebbe di
entrare nei programmi di un Governo che promette una rivoluzione
culturale nella gestione della cosa pubblica.
Particolare
attenzione merita, dal nostro punto di vista, la situazione delle
U.O. preposte ai Beni Archeologici di Soprintendenze, Parchi
Archeologici, Musei. Solo una parte sono dirette da archeologi, ormai
in piccolo numero nei ruoli dirigenziali, mentre molte altre sono
affidate a dirigenti con competenze diverse, architetti, agronomi,
geologi, situazione questa che distingue nettamente la Sicilia dal
resto dell’Italia; i vincitori dell’ultimo concorso per
“dirigenti tecnici archeologi”, assunti sulla base di specifici
titoli professionali e competenze, sono stati invece inquadrati in
una generica fascia di “funzionari”, senza ulteriori connotazioni
professionali, proprio per l’assenza dei profili professionali
nell’amministrazione regionale.
Un’ultima
notazione riguarda le più giovani generazioni: le università hanno
formato negli anni scorsi decine di giovani ben preparati, tramite i
corsi in Beni Culturali e in Archeologia, cui sono stati chiesti
cinque anni (3+2) di università più due di specializzazione e
talora altri tre di Dottorato di Ricerca. Questi giovani sono
disposti a mettersi in giuoco anche al di fuori delle strutture
regionali, tramite la formazione di cooperative e società a r.l. che
operino nel campo dell’archeologia preventiva; in questo campo, un
passo in avanti è stato fatto con il recente recepimento della
L.163/20006; l’Assessorato deve però ancora dotarsi degli elenchi
previsti dalla legge, secondo criteri che, ci si augura, siano
assolutamente trasparenti ed offrano ai giovani siciliani le stesse
opportunità che vengono date nel resto d’Italia.
Facciamo, dunque, affidamento sulla Sua volontà rinnovatrice e sulla
competenza del prof. A. Zichichi, da Lei indicato come nuovo
Assessore ai Beni Culturali, perché questo stato di fatto sia
cambiato e l’Amministrazione dei Beni Culturali siciliana riprenda
quel ruolo chiave nello sviluppo culturale ed economico dell’isola,
che ha esercitato nei decenni scorsi.
Oscar
Belvedere
Università
di Palermo
giovedì 13 dicembre 2012
Osservatorio permanente della ricerca
Catania, 29 novembre 2012
Carissimo Preside,
faccio
seguito ai colloqui intercorsi per chiederLe di farsi promotore di un
‘Osservatorio permanente
della ricerca’ che possa
porre costantemente all’attenzione dell’Ateneo e del territorio
lo stato della ricerca nel nostro Ateneo. La situazione di
frammentazione in cui operiamo rende quasi cieco il nostro procedere,
nessuno sa cosa fa l’altro, e ciò impedisce l’elaborazione di
strategie complessive rese invece urgenti dal bisogno di ridefinire
il ruolo della ricerca universitaria nei processi di formazione dei
nostri studenti e a sostegno dello sviluppo del Paese. La ricerca, a
parole oggi tanto invocata, rischia di essere soffocata da scelte
politiche miopi che non riescono a farne concretamente il volano per
i processi di cambiamento del Paese. Ho intenzione di fare
dell’“Osservatorio” un punto qualificante del mio programma,
con la speranza che esso possa divenire una componente essenziale
della nostra Università.
Confido
nella Sua disponibilità, conoscendo la Sua generosità e il Suo
impegno nei confronti dei giovani ricercatori.
Cordiali
saluti,
Enrico Iachello
Catania, 11 dicembre 2012
Carissimo,
Le rinnovo caloroso apprezzamento per il rilievo che serba nel suo
programma l’istituzione di un Osservatorio permanente della
ricerca. Sarà possibile intervenire in tempo rapido e opportuno su
difficoltà o crisi di area e/o di settore. Allo stato, tuttavia, dai
recenti colloqui è emersa la necessità di realizzare da subito un
Censimento della ricerca in atto nel nostro Ateneo (stato, problemi,
progetti), precondizione perché il progettato Osservatorio parta
disponendo delle conoscenze necessarie. Per mia parte Le confermo
piena disponibilità a coordinare il lavoro dei colleghi che sono
disposti a concorrere all’opera.
A
presto, con amicizia ed augurio,
un abbraccio dal Suo Giuseppe
Giarrizzo
A
seguito di questa corrispondenza, il prof. Giuseppe Giarrizzo ha
costituito un gruppo di lavoro composto dai seguenti colleghi:
Sebastiano Albergo
Gabriella Alfieri
Fulvio Attinà
Davide Capodanno
Maurizio Caserta
Giovanni Grasso
Gabriella Alfieri
Fulvio Attinà
Davide Capodanno
Maurizio Caserta
Giovanni Grasso
Francesco
Priolo
Giuseppe
Ronsisvalle
Corrado
Tamburino
Mario Zappia
Ringrazio
di cuore il prof. Giarrizzo e i colleghi che hanno aderito al Suo
appello. La loro attività, di cui sul blog darò via via conto, sono
certo che potrà diventare patrimonio prezioso per tutto l’Ateneo.
Auguro loro buon lavoro e li ringrazio ancora per il senso di
appartenenza alla comunità accademica che li spinge con generosità
ad avviare questo progetto ambizioso.
Enrico
Iachello
Catania, 13 Dicembre 2012
Caro Professor Giarrizzo,
avevamo aderito alla Sua recentissima richiesta di partecipare ad un Osservatorio Permanente della Ricerca - del quale peraltro dovremmo ancora iniziare a discutere e definire gli ambiti di azione - per stima nei Suoi confronti, puro spirito di servizio verso la comunità accademica, e vivo interesse per la promozione della qualità nelle attività di ricerca. Riteniamo però che sia opportuno condurre un attento censimento della ricerca iniziando i lavori dell’Osservatorio solo dopo l’avvenuta elezione del nuovo Rettore in modo che la nostra iniziativa non interferisca con la campagna elettorale e possa tornare a vantaggio dell’intera comunità accademica.
cordialmente,
Sebastiano Albergo
Fulvio Attinà
Giovanni Grasso
Francesco Priolo
Corrado Tamburino
Catania, 14 Dicembre 2012
Cari colleghi,
prendo atto della Vostra scelta, e confido di poter contare sulla Vostra piena collaborazione futura al Censimento della ricerca - che rimane, nella mia proposta, il fine di dotare gli organi di governo del nostro Ateneo di uno strumento utile, che altre università europee reputandolo indispensabile possiedono da tempo. Per mia parte, continuerò a tenere con voi i contatti avviati per la predisposizione degli strumenti e del percorso.
prendo atto della Vostra scelta, e confido di poter contare sulla Vostra piena collaborazione futura al Censimento della ricerca - che rimane, nella mia proposta, il fine di dotare gli organi di governo del nostro Ateneo di uno strumento utile, che altre università europee reputandolo indispensabile possiedono da tempo. Per mia parte, continuerò a tenere con voi i contatti avviati per la predisposizione degli strumenti e del percorso.
Con amicizia e augurio Vostro Giuseppe Giarrizzo
mercoledì 12 dicembre 2012
Intervista su D1 Television
(Intervista andata in onda l'11 dicembre 2012)
intervista realizzata da Sarah Donzuso per Blog Tv (D1 Television)
venerdì 7 dicembre 2012
Docenza e amministrazione
Torno
sul
blog
a
occuparmi
di
un
tema
che
ho
già
affrontato
con
una
e-mail
inviata
ai
colleghi
l’estate
scorsa:
l’organizzazione
amministrativa
seguita
alla
‘Gelmini’.
Lo
faccio
perché
il
tema
è
ancora
oggetto
di
riflessione
e
di
discussione,
a
volte
anche
accesa,
nella
nostra
comunità,
e
anche
per
confrontarmi
con
le
recenti
proposte
avanzate
sull’argomento
dal
collega
Pignataro.
Disagi, vantaggi e miraggi
Il
processo
di
riorganizzazione
complessiva
del
nostro
Ateneo,
con
il
riaccentramento
delle
spese
generali
di
funzionamento
e
l’istituzione
dei
poli
amministrativo-contabili,
ha
prodotto
(e
in
parte,
sia
pure
con
minore
intensità,
sembra
ancora
produrre)
del
disagio,
derivante
da
una
maggiore
separazione
tra
le
funzioni
didattiche
e
di
ricerca,
di
competenza
dei
docenti,
e
quelle
riguardanti
i
servizi,
affidate
alla
competenza
dell’apparato
tecnico-amministrativo.
Nell’affrontare
tale
questione,
va
ricordato,
anzitutto,
che
la
riorganizzazione
amministrativa
non
è
una
‘invenzione’
del
nostro
Ateneo,
ma
discende
direttamente
dalla
legge
di
riforma
del
sistema
universitario,
dalla
cui
applicazione
derivano,
fra
l’altro,
il
bilancio
e
la
programmazione
unici
di
Ateneo
(affidati
alla
responsabilità
del
Consiglio
di
amministrazione,
l’organo
universitario
che
più
degli
altri
ha
visto
‘riscritte’
e
accresciute
le
proprie
funzioni,
fino
a
divenire
l’organo
“di
indirizzo
strategico”
delle
Università),
l’introduzione
della
contabilità
economico-patrimoniale
(alla
ricerca
di
una
migliore
efficienza
gestionale),
lo
sviluppo
della
contabilità
analitica
e
del
controllo
di
gestione,
l’attribuzione
al
management
universitario
(alla
dirigenza
e,
in
particolare,
al
direttore
generale)
«sulla
base
degli
indirizzi
forniti
dal
consiglio
di
amministrazione,
della
complessiva
gestione
e
organizzazione
dei
servizi,
delle
risorse
strumentali
e
del
personale
tecnico-amministrativo
dell’ateneo».
Va
altresì
rammentato
che
il
nuovo
modello
organizzativo
ha
già
manifestato
– nel
corso
del
2012
– alcune
delle
sue
positività,
prima
fra
tutte
quella
di
avere
consentito
al
nostro
Ateneo
(attraverso
la
produzione
di
economie
di
scala,
nonché
mediante
un
più
attento
controllo
della
spesa
– con
circa
6
milioni
di
euro
di
risparmio,
ogni
anno,
solo
per
ciò
che
concerne
le
manutenzioni
–,
entrambi
favoriti
dal
processo
di
riorganizzazione,
unitamente
a
un
maggior
rigore
amministrativo,
a
partire
dal
pieno
rispetto
delle
norme
di
legge
in
materia
di
appalti
pubblici)
di
affrontare
con
sufficiente
serenità
– sicuramente
maggiore
rispetto
ad
altri
atenei
italiani,
di
indubbio
prestigio,
che
non
riescono
più
a
garantire
nemmeno
il
pagamento
delle
spettanze
retributive,
per
non
parlare
di
altre
pubbliche
amministrazioni
– la
drastica
riduzione
delle
risorse
statali
(con
un
FFO
assegnato
all’Ateneo
che
è
già
sceso
di
circa
30
milioni
di
euro,
dal
2008
a
oggi,
-15%,
e
che
si
prevede
in
ulteriore
importante
discesa
per
l’esercizio
2013),
figlia
del
grave
momento
di
crisi
(la
più
grave
dal
dopoguerra)
che
il
Paese
tutto
sta
attraversando.
La
riorganizzazione,
tuttavia,
– ed
è
questa
una
sicura
criticità,
probabilmente
la
più
avvertita,
del
nuovo
modello
organizzativo
– è
stata
in
genere
vissuta
dai
docenti
come
una
sorta
di
‘deminutio’;
insomma,
come
una
perdita
di
‘potere’.
Infatti,
ho
spesso
sentito
dire
da
diversi
colleghi
docenti:
«non
‘dipendendo’
da
noi
il
personale,
non
possiamo
più
disporne
in
modo
efficace».
Mi
pare
che
questa
sensazione
raccolga
anche
Giacomo
Pignataro
quando
afferma
che
«è
stata
spezzata
la
vicinanza
tra
gli
‘utenti’
dei
servizi
(principalmente
i
docenti)
e
coloro
che
hanno
la
responsabilità
di
gestirli».
Ma
se,
come
egli
stesso
riconosce,
il
riferimento
non
è
alla
vicinanza
logistica
(che
non
mi
pare
sia
stata
modificata
nel
complesso),
non
può
essere
trascurato
che
questa
‘separazione’
(tra
la
sfera
dell’amministrazione
e
quella
della
docenza)
è
voluta
dal
legislatore
e
non
può
pertanto
essere
affrontata
con
proposte
di
modifica
statutaria
– che
sanno
un
po’
troppo
di
iniziativa
elettoralistica
– o
con
formule
meramente
‘nominalistiche’.
In
altri
termini,
in
parole
povere,
e
vale
per
tutti
coloro
che
intendono
candidarsi
alla
carica
di
rettore
del
nostro
Ateneo:
occorre,
a
tutti
noi,
fare
i
conti
con
la
realtà;
non
si
può
provare
a
vincere
raccontando
le
favole,
perché
poi
non
si
governa,
perché
poi
non
si
è
in
condizione
di
soddisfare
in
alcun
modo
coloro
che
ci
hanno
votato
cavalcando
l’onda
emozionale
di
‘proclami’
di
per
sé
irrealizzabili,
sia
per
vincoli
di
legge,
sia
per
indisponibilità
di
risorse
finanziarie.
Ma serve davvero una nuova fase costituente?
E
allora,
in
via
preliminare,
diciamocelo
con
franchezza:
non
c’è
in
Italia
alcuna
forza
politica,
seriamente
candidata
al
governo
del
Paese,
che
intenda
porre
mano,
nell’immediato,
a
una
profonda
rimeditazione
della
riforma
universitaria,
e
soprattutto
che
abbia
in
agenda
una
‘controriforma’
della
recente
riforma,
notoriamente
bipartisan.
Anche
i
‘nostalgici’
se
ne
facciano
una
ragione;
il
lavoro
che
ora
ci
attende
consiste
nell’applicare
al
meglio
la
riforma,
per
trarre
dalle
nuove
prassi
che
sapremo
adottare
un’opportunità
di
miglioramento
del
nostro
‘essere
Università’.
Ciò
vale
anche
a
livello
locale:
il
nostro
Ateneo
ha
attraversato
– non
senza
scossoni
– la
stagione
della
riforma
statutaria,
voluta
dalla
legge
Gelmini.
Tale
stagione
ha
impegnato
tutti
noi,
ci
ha
appassionato
e
si
è
oggi
‘storicizzata’:
non
vedo
negli
organi
di
Ateneo
a
cui
compete
la
revisione
statutaria,
il
Senato
accademico
e
il
Consiglio
di
amministrazione,
da
poco
eletti
con
le
nuove
regole
e
in
carica
sino
al
2016,
alcuna
frenesia
di
prodursi
in
un
nuovo
esercizio
costituente.
Il
che
mi
sembra
assai
ragionevole,
considerata
la
naturale
‘rigidità’
di
ogni
esperienza
statutaria.
Avviamoci,
quindi,
con
convinzione,
anche
critica,
nella
pratica
dell’Università
riformata,
trovando
per
tale
via
le
soluzioni
più
adeguate
al
nostro
agire
quotidiano;
evitiamo
di
avvitarci
– com’è
tipico
della
peggiore
politica
– in
un
perpetuo,
e
spesso
inconcludente,
discorso
sulle
regole
del
‘gioco’.
Piuttosto,
sperimentiamole
‘giocando’:
rimbocchiamoci
le
maniche,
esercizio
– questo
sì
– assai
impellente
in
un
momento
così
difficile
per
l’intera
Nazione,
mettendo
sempre
più
impegno
nel
nostro
lavoro,
nella
didattica,
nella
ricerca,
nei
servizi,
per
venire
fuori
dalla
crisi,
presto
e
bene,
per
provare
ad
avviare
nuovi
percorsi
di
crescita,
superando
le
tante
difficoltà
congiunturali
che
oggi
‘ingessano’
l’azione
del
nostro
Ateneo.
Ci
sarà
tempo,
esaurita
la
sperimentazione,
per
ritornare
a
discutere
delle
regole
(ivi
comprese
le
norme
statutarie
che
disciplinano
le
modalità
di
scelta
dei
consiglieri
di
amministrazione)
e
per
correggere
quelle
che
hanno
fatto
peggiore
prova.
Una proposta concreta: attribuire il coordinamento alle segreterie di direzione
Con
sano
realismo,
che
senso
ha
scomodarci
in
riforme
statutarie,
che
rischiano
soltanto
di
rallentare
i
processi,
condannandoci
a
un’infinita
transizione,
per
ripristinare
le
“segreterie
amministrative
dei
dipartimenti”
del
tempo
che
fu
e
l’afferenza
(invero
mai
prevista)
del
personale
tecnico-amministrativo
ai
dipartimenti?
Ammesso
per
un
istante,
ma
non
concesso,
che
la
proposta
del
collega
Pignataro
sia
praticabile
dal
punto
di
vista
giuridico,
non
è
ben
più
semplice
– come
ho
già
suggerito
in
occasione
dell’intervista
rilasciata
a
Telejonica
lo
scorso
29
novembre
– guardare
avanti,
com’è
tipico
della
cultura
riformista,
migliorando
il
nuovo
modello
organizzativo
attraverso
un
potenziamento
delle
attuali
segreterie
di
direzione,
a
cui
va
affidato
il
coordinamento
del
ciclo
amministrativo-contabile
che
si
svolge
presso
i
poli
e
che
vede
coinvolte
le
singole
strutture
dirigenziali
competenti
per
materia?
Ritengo,
alla
luce
dell’esperienza
già
acquisita,
che
ciò
servirebbe
(e
basterebbe)
a
rendere
più
fluido,
più
celere,
più
facilmente
‘misurabile’
l’intero
ciclo
di
lavoro
che
si
svolge
presso
i
PAC
(soprattutto
in
quelli
a
servizio
delle
aree
scientifiche
articolate
in
più
dipartimenti),
contribuendo
così
ad
assicurare
tempi
brevi
e
certi
per
le
procedure
di
spesa;
è
noto,
infatti,
che
è
stato
attivato
un
monitoraggio
costante
dei
tempi
di
tali
procedure,
reso
‘pubblico’
(il
Rettore
ha
inviato
una
e-mail
in
tal
senso,
i
dati
– aggiornati
pressoché
quotidianamente
– sono
accessibili
attraverso
il
portale
web
di
Ateneo;
ciò
deve
continuare
a
farsi
anche
in
futuro,
con
il
nuovo
rettore,
in
modo
da
potere
individuare
eventuali
‘strozzature’,
per
intervenire
rapidamente
alla
soluzione
di
ogni
eventuale
inghippo).
Resta
inteso,
inoltre,
che,
in
qualsiasi
momento,
il
direttore
del
dipartimento,
anche
su
sollecitazione
dei
colleghi
docenti,
può
far
notare
le
disfunzioni
ai
dirigenti,
al
direttore
generale
e
agli
organi
competenti,
al
fine
di
trovare
le
soluzioni
migliori
a
vantaggio
di
quella
che
è
la
missione
specifica
dell’Università:
fare
ottima
didattica
e
ottima
ricerca.
Il
che
costituisce
esclusiva
competenza
e
responsabilità
dei
docenti.
L’autonomia dei dipartimenti: evitare i fraintendimenti
Quanto
poi
all’afferenza
o,
più
correttamente,
all’assegnazione
del
personale
tecnico-amministrativo
ai
dipartimenti,
Pignataro
crede
davvero
che
servano
addirittura
delle
modifiche
statutarie
perché
ciò
sia
fatto?
Ma
allora
i
tecnici
e
gli
amministrativi
che
vediamo
prestare
quotidianamente
il
loro
servizio
presso
i
dipartimenti
e
a
supporto
degli
stessi
a
chi
sono
stati
concretamente
assegnati?
Dov’è
in
ciò
la
differenza
‘radicale’
con
gli
altri
Atenei
che
elenca
in
tabella?
Cosa
in
sostanza,
però,
è
cambiato?
Il
personale
tecnico-amministrativo
non
dipende
più
dal
direttore
del
dipartimento,
non
è
più
legato
allo
stesso
da
vincoli
di
tipo
gerarchico
(ma,
come
ho
detto,
è
la
legge
che
lo
prescrive)
e
si
è
attivata
una
procedura
di
gestione
e
di
organizzazione
del
personale
che
fa
capo
alla
direzione
generale
e
alla
dirigenza
dell’Ateneo,
inevitabile
dato
che
è
il
management
universitario
a
esserne
responsabile
in
modo
stringente
a
seguito
della
riforma.
Un’attività
amministrativo-contabile
che
non
dipende
più
dal
direttore
del
dipartimento.
Tutto
ciò
mette
in
discussione
l’autonomia
dei
dipartimenti?
Ritengo
che
alla
base
di
questa
affermazione
(sensazione,
se
si
vuole,
in
qualche
caso)
vi
sia
un
fraintendimento.
Le
norme
di
legge,
ovviamente
recepite
dal
nostro
statuto,
confermano
senz’altro
la
centralità
istituzionale
dell’azione
didattica
e
di
ricerca,
rispetto
alla
quale
le
attività
tecnico-amministrative
assumono
valenza
ausiliaria,
servono
cioè
a
consentire
proprio
il
migliore
svolgimento
della
missione
specifica
dell’Università,
che
– lo
ripeto
– consiste
nel
fare
didattica
e
ricerca,
possibilmente
eccellenti.
Quando
Pignataro
parla
di
autonomia
gestionale
dei
dipartimenti,
a
cosa
può
correttamente
riferirsi
se
non
a
ciò?
Ma
nessuno
l’ha
mai
messa
in
discussione.
Può
anche
darsi
che
qualche
docente,
qualche
dirigente,
qualche
funzionario
– nella
fase
di
transizione
– abbia
male
interpretato
la
nuova
situazione.
La
‘correzione’
però
non
richiede
modifiche
di
statuto,
ma
una
pratica
corretta,
orientata
al
servizio
e
al
problem
solving,
distante
dall’approccio
burocratico
e
caratterizzata
dal
metodo
del
dialogo
e
del
rispetto
della
professionalità
di
ciascuno.
Se
teniamo
presente
questo
principio,
la
situazione
apparirà
nella
sua
reale
dimensione:
tutto
dipenderà
da
una
prassi
di
lavoro
che,
se
ben
governata,
produrrà
solo
effetti
positivi.
Provo
a
riflettere,
anche
per
rendere
concreto
il
mio
discorso,
riferendomi
alla
mia
esperienza
di
preside.
Spesso
mi
sono
trovato
a
firmare
carte
dai
contenuti
del
tutto
estranei
alle
mie
effettive
conoscenze,
e
pertanto
per
me
sostanzialmente
incomprensibili.
Per
esempio,
tante
volte
ho
dovuto
attestare
la
congruità
del
prezzo
di
una
certa
cosa
(cioè,
di
qualsiasi
cosa)
rispetto
ai
prezzi
di
mercato.
Ma
io
non
avevo
alcuna
idea
dei
prezzi
di
mercato,
né
ritenevo
(sarà
pure
un
mio
limite)
di
dovermi
impegnare
direttamente
in
indagini
del
genere
a
scapito
della
mia
attività
didattica
e
scientifica.
Di
più,
a
scapito
della
mia
precipua
attività
di
preside,
cioè
di
coordinatore
dell’attività
didattica
della
Facoltà
e
delle
connesse
iniziative
culturali
sulle
quali
ho
profuso,
com’è
noto,
molta
energia.
Nei
fatti,
non
potevo
che
affidarmi
all’ufficio
amministrativo
che
compilava
la
pratica
(il
vecchio
CGA),
restando
però
in
capo
a
me
ogni
responsabilità
in
ordine
a
quanto
firmavo,
pur
se
con
scarsa
consapevolezza.
Ebbene,
non
è
oggi
obiettivamente
meglio
che
il
docente
non
abbia
più
questa
responsabilità?
Non
debba
cioè
più
assumere
compiti
che
sicuramente
fuoriescono
dalle
sue
reali
competenze
professionali
e
dai
suoi
effettivi
interessi
culturali
e
scientifici?
E
ciò
non
ci
consente
di
recuperare
tempo
e
concentrazione
per
le
nostre
attività
‘istituzionali’?
Anch’io,
nella
fase
iniziale
della
riorganizzazione
amministrativa,
ho
avuto
momenti
di
disorientamento.
Le
procedure
mi
sono
sembrate
complicate,
in
qualche
caso
limitanti.
Ovviamente,
faccio
esempi
legati
alla
mia
esperienza
di
studioso
di
storia,
ma
ciascuno
potrebbe
estenderli
al
suo
campo
di
attività.
Per
quel
che
mi
riguarda,
non
riuscivo
a
comprendere
perché,
per
esempio,
non
potessero
essermi
rimborsate
le
spese
per
libri
acquistati
in
una
libreria
antiquaria
all’estero.
La
normativa
nazionale
è
però
rigida:
a
tacer
d’altro,
va
assicurata
la
tracciabilità
dei
pagamenti,
va
verificata
la
posizione
di
regolarità
contributiva
del
venditore
nei
confronti
dei
suoi
dipendenti,
sussistono
adempimenti
fiscali
assai
rigorosi,
vanno
rispettate
le
norme
del
codice
dei
contratti
pubblici,
anche
al
fine
di
garantire
la
correttezza
e
l’imparzialità
dell’agire
amministrativo,
occorre
rispettare
le
norme
sempre
più
complesse
in
materia
di
contabilità
pubblica.
Tutte
attività
che
richiedono
specifiche
competenze
professionali,
che
non
appartengono
ai
docenti,
e
che
costituiscono
invero
il
mestiere
quotidiano
dei
dirigenti,
dei
funzionari,
del
personale
tecnico-amministrativo,
ai
quali
spetta
il
compito
di
trovare
soluzioni
compatibili
con
il
quadro
normativo
e
tuttavia
idonee
a
soddisfare
talune
esigenze
di
speditezza
che
caratterizzano
l’azione
didattico-scientifica.
Restando
al
caso
che
allora
mi
assillava,
quello
dell’acquisto
di
un
testo
raro,
trovato
quasi
per
caso,
frequentando
all’estero
una
libreria
antiquaria,
ho
appreso
che
si
può
ovviare
utilizzando
la
cosiddetta
procedura
per
acquisti
in
urgenza,
utilizzando
la
carta
di
credito
di
cui
dispongono
i
servizi
provveditorali
di
Ateneo,
su
richiesta
del
direttore
del
dipartimento
di
appartenenza,
a
cui
spetta
valutare
l’effettivo
carattere
di
urgenza
dell’acquisto
da
effettuarsi
(sempre
che
i
fondi
di
ricerca
o
le
dotazioni
dipartimentali
lo
permettano…
ma
questo,
ahinoi,
è
un
altro
discorso).
Non
si
tratta
allora
di
entrare
in
contrapposizione
con
l’impiegato
o
col
suo
dirigente,
quasi
che
non
si
appartenga
alla
medesima
comunità
universitaria,
quasi
che
si
abbiano
interessi
confliggenti
e
non
piuttosto
sinergici;
si
tratta,
invece,
di
prendere
atto
(come
sempre)
del
quadro
normativo
esistente,
augurandoci
semmai
che
possa
migliorare
e
semplificarsi
in
futuro,
individuando,
nel
frattempo,
una
prassi
di
risoluzione
di
eventuali
problemi
pratici
in
modo
concreto
ed
efficace.
Altri disagi e un’altra proposta concreta
Uno
dei
problemi
pratici
che
più
spesso
i
colleghi
dei
dipartimenti
‘scientifici’
mi
sottopongono
riguarda
il
ruolo
del
personale
tecnico
impegnato
nei
servizi
di
laboratorio.
Non
c’è
dubbio
che
tale
personale
è
sempre
più
impegnato
in
attività
connesse
al
rispetto
della
rigida
normativa
in
materia
di
sicurezza
nei
luoghi
di
studio
e
di
lavoro:
dalla
manutenzione
delle
attrezzature
al
corretto
smaltimento
dei
rifiuti;
dalla
fornitura
dei
dispositivi
di
protezione
al
controllo
del
rispetto
delle
prescrizioni
di
legge.
Tutto
ciò,
è
bene
dirlo,
costituisce
una
priorità:
lo
impone
la
legge,
lo
impone
il
buon
senso.
Soprattutto
in
un
ateneo
come
il
nostro,
che
ha
vissuto
tristissime
esperienze
nel
suo
recente
passato
e
che
è
riuscito
a
venirne
fuori,
con
importanti
investimenti
proprio
nel
settore
della
sicurezza,
in
particolare
nei
laboratori,
tali
da
farne
oggi
un
punto
di
riferimento
per
l’intero
sistema
universitario,
con
importanti
riconoscimenti
che
ci
provengono
dalle
migliori
realtà
nazionali,
un
tempo
assai
più
avanzate
della
nostra
sul
terreno
della
politiche
e
dei
servizi
di
sicurezza
nei
luoghi
universitari
di
lavoro.
Un
impegno
così
gravoso,
tuttavia,
malgrado
i
migliori
propositi,
difficilmente
consente
ai
nostri
tecnici
di
laboratorio
di
dedicarsi,
per
come
occorre,
a
supporto
delle
attività
didattiche
e
di
ricerca
condotte
dai
docenti.
Il
problema
può
essere
intanto
attenuato
attraverso
una
più
attenta
programmazione
delle
attività,
per
provare
a
conciliare
lo
sforzo
in
materia
di
sicurezza
e
l’esigenza
di
coadiuvare
il
docente
nel
contesto
didattico-scientifico.
Ma
ciò
non
basta.
La
verità
è
che
i
tecnici
di
laboratorio
sono
troppo
pochi,
soltanto
80
per
l’intero
Ateneo;
il
loro
numero
si
è
progressivamente
ridotto
a
causa
dei
pensionamenti
non
compensati
da
nuove
assunzioni
per
via
del
blocco
del
turn
over
(reso
ancora
più
stringente
dalle
ultime
norme
di
legge
in
materia
di
spending
review).
E
ciò
riguarda
il
personale
tecnico-amministrativo
in
generale,
con
conseguenti
inevitabili
riflessi
negativi
sulla
qualità
complessiva
dei
servizi.
Si
pensi
a
quel
che
sta
accadendo
all’Università
di
Roma
‘La
Sapienza’,
coi
docenti
costretti
al
ruolo
di
‘commessi
di
sala’
per
consentire
l’apertura
delle
biblioteche.
E
ciò
avviene
a
Roma,
ove
operano
5.377
unità
di
personale
tecnico-amministrativo
di
ruolo
a
fronte
di
4.767
docenti
(con
un
rapporto
PTA/docenti
pari
a
1,12).
Che
dire
di
Catania,
ove
tale
rapporto
è
pari
a
0,63,
con
879
tecnici
e
amministrativi
di
ruolo
– fortunatamente
supportati
da
320
precari
in
corso
di
stabilizzazione,
presenti,
tuttavia,
in
numero
fors’anche
maggiore,
nelle
altre
Università
– e
1.389
docenti?
Che
dire
di
Catania,
che
è
l’ateneo,
fra
i
mega-atenei
(Bologna,
Firenze,
Milano,
Napoli
‘Federico
II’,
Padova,
Roma
‘La
Sapienza’,
Torino)
e
gli
atenei
siciliani
di
Messina
e
di
Palermo,
con
il
peggiore
rapporto
PTA/docenti,
con
il
numero
più
basso
di
personale
tecnico-amministrativo
in
servizio?
Si
favoleggia
sui
compensi
dei
dirigenti,
stabiliti
per
legge
e
dalla
contrattazione
nazionale,
e
non
si
dice
che
la
spesa
complessiva
per
la
retribuzione
dell’apparato
tecnico-amministrativo
è
la
più
bassa
in
assoluto
rispetto
agli
atenei
citati:
un
esempio
per
tutti,
l’Università
di
Messina,
di
dimensioni
notevolmente
inferiori
alla
nostra,
spende
oltre
52
milioni
di
euro;
Palermo
arriva
a
circa
70
milioni;
Catania
si
ferma
a
circa
40
milioni
(il
dato
è
quello
ufficiale
del
2010;
la
previsione
per
il
2013
è
inferiore
ai
35
milioni).
Riflettendo
a
partire
da
questi
dati,
che
evidenziano
uno
squilibrio
strutturale
nel
contesto
del
nostro
Ateneo,
forse
si
può
comprendere
meglio
la
scelta
organizzativa
dei
poli:
con
poco
personale
a
disposizione
si
è
reso
necessario
operare
una
politica
di
‘dimensionamento’,
in
analogia
a
quanto
sta
accadendo
nel
sistema
scolastico,
con
lo
stesso
personale
tecnico-amministrativo
a
servizio
di
una
pluralità
di
strutture
didattiche.
Così
possiamo
comprendere
le
basi
oggettive
del
disagio,
che
si
genera
in
particolare
allorquando
le
strutture
dipartimentali
servite
dallo
stesso
polo
sono
troppe
o
non
sono
propriamente
vicine
(e
qui
il
crescente
supporto
della
telematica
dovrebbe
in
qualche
modo
attenuare
l’inconveniente).
Per
risolvere
definitivamente
il
problema,
l’Ateneo
è
chiamato
a
fare
delle
scelte
di
natura
strategica:
vogliamo
migliori
servizi?
E
allora
non
basta
continuare
a
‘riorganizzarli’,
lamentandoci
con
pari
continuità.
Salvaguardato
il
processo
di
stabilizzazione,
che
va
condotto
in
porto,
occorre
prevedere
investimenti
anche
nel
settore
tecnico-amministrativo,
per
potenziare,
con
innesti
di
qualità,
utilizzando
ogni
formula
consentita
dalla
normativa
in
materia,
i
settori
più
deboli
della
nostra
macchina
organizzativa,
come
appunto
il
coordinamento
dei
servizi
di
polo
in
capo
alle
segreterie
di
direzione
e
i
servizi
tecnici
di
laboratorio.
Non
si
tratta
di
cifre
enormi,
ma
servono
nell’immediato
almeno
500.000
euro,
che
sono
tanti
in
considerazione
delle
decrescenti
risorse
economiche
a
disposizione
dell’Ateneo,
ma
che
vanno
trovati
nelle
pieghe
del
nostro
bilancio,
complessivamente
‘sano’,
in
particolare
impiegando
parte
delle
economie
che
verranno
prodotte,
progressivamente,
nei
prossimi
quattro
anni
(per
complessivi
10
milioni
di
euro
circa
a
regime,
a
conclusione
del
periodo
2012/2016,
di
cui
oltre
3,6
milioni
di
euro
già
nel
2013)
dal
trasferimento
a
carico
del
servizio
sanitario
del
personale
impiegato
dal
Policlinico.
La
vertenza
con
la
Regione
Siciliana
assume
a
questo
punto
i
connotati
di
una
‘battaglia
di
sopravvivenza’,
nell’interesse
dei
precari
dell’Ateneo,
che
attendono
di
essere
stabilizzati,
e
dell’Ateneo
nel
suo
complesso,
che
può
trarre
linfa
vitale
per
il
suo
sviluppo.
Al
nuovo
Governo
regionale
questa
situazione
va
rappresentata
con
la
massima
urgenza:
ne
va
della
vita
del
sistema
universitario
regionale.
Per concludere
Non
serve
a
nessuno,
fa
solo
danno
a
tutti,
creare
contrapposizioni
‘funzionali’
tra
docenza
e
amministrazione;
vanno
piuttosto
individuati
e
praticati
rapporti
corretti
e
azioni
efficaci.
I
problemi,
nella
quotidianità,
non
sono
mancati
e
non
mancheranno,
certo.
Ma
nel
complesso,
dopo
tanti
anni
di
esperienza
istituzionale,
ritengo
che
le
difficoltà
pratiche
siano
legate,
più
che
a
formule
organizzative
(che
in
ogni
caso
vanno
costantemente,
per
metodo,
verificate
e,
ove
occorra,
modificate),
alle
competenze
e
a
taluni
‘vizi
storici’
della
burocrazia
amministrativa,
ma
anche
– lasciatemelo
dire
– alle
capacità/incapacità
della
componente
docente
di
programmare
per
tempo
le
proprie
attività.
Un
impegno
a
meglio
calendarizzare
didattica
e
ricerca
(e
le
attività
ad
esse
connesse)
renderebbe
tutto
più
semplice.
Bisogna
mettere
a
regime
la
macchina,
proviamoci
tutti
con
serenità
e,
allo
stesso
tempo,
con
serietà
e
con
rigore.
Non
v’è
alcun
dubbio:
l’Università,
per
migliorare
la
sua
performance,
ha
bisogno
di
un
apparato
tecnico-amministrativo
efficiente
e
di
qualità.
Di
più,
dobbiamo
pretendere
efficienza
e
qualità
da
parte
di
tutti
coloro
che
animano
la
comunità
universitaria,
anzitutto
per
assicurare
i
migliori
servizi
ai
nostri
studenti,
vera
ragion
d’essere
dell’istituzione
universitaria.
E
questo
vale
anche
per
noi
docenti.
Quante
volte,
e
mi
scuso
se
ricorro
ancora
una
volta
all’esperienza
maturata
nel
corso
della
mia
attività
di
preside,
ho
dovuto
invitare
i
colleghi
a
non
cambiare
continuamente
le
date
degli
esami
perché
ciò
aveva
un
effetto
negativo
sulla
programmazione
delle
attività
degli
studenti?
Abbiamo
necessità
e
urgenza
di
migliorare
il
nostro
impegno
e
la
nostra
attività;
ciò
vale
per
tutto
l’Ateneo,
non
semplicemente
per
il
collega
del
tavolo
accanto
o
per
la
singola
unità
di
personale
tecnico-amministrativo.
Enrico
Iachello
Iscriviti a:
Post (Atom)