venerdì 7 dicembre 2012

Docenza e amministrazione

Torno sul blog a occuparmi di un tema che ho già affrontato con una e-mail inviata ai colleghi l’estate scorsa: l’organizzazione amministrativa seguita alla ‘Gelmini’. Lo faccio perché il tema è ancora oggetto di riflessione e di discussione, a volte anche accesa, nella nostra comunità, e anche per confrontarmi con le recenti proposte avanzate sull’argomento dal collega Pignataro.

Disagi, vantaggi e miraggi

Il processo di riorganizzazione complessiva del nostro Ateneo, con il riaccentramento delle spese generali di funzionamento e l’istituzione dei poli amministrativo-contabili, ha prodotto (e in parte, sia pure con minore intensità, sembra ancora produrre) del disagio, derivante da una maggiore separazione tra le funzioni didattiche e di ricerca, di competenza dei docenti, e quelle riguardanti i servizi, affidate alla competenza dell’apparato tecnico-amministrativo.
Nell’affrontare tale questione, va ricordato, anzitutto, che la riorganizzazione amministrativa non è una ‘invenzione’ del nostro Ateneo, ma discende direttamente dalla legge di riforma del sistema universitario, dalla cui applicazione derivano, fra l’altro, il bilancio e la programmazione unici di Ateneo (affidati alla responsabilità del Consiglio di amministrazione, l’organo universitario che più degli altri ha visto ‘riscritte’ e accresciute le proprie funzioni, fino a divenire l’organo “di indirizzo strategico” delle Università), l’introduzione della contabilità economico-patrimoniale (alla ricerca di una migliore efficienza gestionale), lo sviluppo della contabilità analitica e del controllo di gestione, l’attribuzione al management universitario (alla dirigenza e, in particolare, al direttore generale) «sulla base degli indirizzi forniti dal consiglio di amministrazione, della complessiva gestione e organizzazione dei servizi, delle risorse strumentali e del personale tecnico-amministrativo dell’ateneo».
Va altresì rammentato che il nuovo modello organizzativo ha già manifestato – nel corso del 2012 – alcune delle sue positività, prima fra tutte quella di avere consentito al nostro Ateneo (attraverso la produzione di economie di scala, nonché mediante un più attento controllo della spesa – con circa 6 milioni di euro di risparmio, ogni anno, solo per ciò che concerne le manutenzioni –, entrambi favoriti dal processo di riorganizzazione, unitamente a un maggior rigore amministrativo, a partire dal pieno rispetto delle norme di legge in materia di appalti pubblici) di affrontare con sufficiente serenità – sicuramente maggiore rispetto ad altri atenei italiani, di indubbio prestigio, che non riescono più a garantire nemmeno il pagamento delle spettanze retributive, per non parlare di altre pubbliche amministrazioni – la drastica riduzione delle risorse statali (con un FFO assegnato all’Ateneo che è già sceso di circa 30 milioni di euro, dal 2008 a oggi, -15%, e che si prevede in ulteriore importante discesa per l’esercizio 2013), figlia del grave momento di crisi (la più grave dal dopoguerra) che il Paese tutto sta attraversando.

La riorganizzazione, tuttavia, – ed è questa una sicura criticità, probabilmente la più avvertita, del nuovo modello organizzativo – è stata in genere vissuta dai docenti come una sorta di ‘deminutio’; insomma, come una perdita di ‘potere’. Infatti, ho spesso sentito dire da diversi colleghi docenti: «non ‘dipendendo’ da noi il personale, non possiamo più disporne in modo efficace». Mi pare che questa sensazione raccolga anche Giacomo Pignataro quando afferma che «è stata spezzata la vicinanza tra gli ‘utenti’ dei servizi (principalmente i docenti) e coloro che hanno la responsabilità di gestirli». Ma se, come egli stesso riconosce, il riferimento non è alla vicinanza logistica (che non mi pare sia stata modificata nel complesso), non può essere trascurato che questa ‘separazione’ (tra la sfera dell’amministrazione e quella della docenza) è voluta dal legislatore e non può pertanto essere affrontata con proposte di modifica statutaria – che sanno un po’ troppo di iniziativa elettoralistica – o con formule meramente ‘nominalistiche’. In altri termini, in parole povere, e vale per tutti coloro che intendono candidarsi alla carica di rettore del nostro Ateneo: occorre, a tutti noi, fare i conti con la realtà; non si può provare a vincere raccontando le favole, perché poi non si governa, perché poi non si è in condizione di soddisfare in alcun modo coloro che ci hanno votato cavalcando l’onda emozionale di ‘proclami’ di per sé irrealizzabili, sia per vincoli di legge, sia per indisponibilità di risorse finanziarie.

Ma serve davvero una nuova fase costituente?

E allora, in via preliminare, diciamocelo con franchezza: non c’è in Italia alcuna forza politica, seriamente candidata al governo del Paese, che intenda porre mano, nell’immediato, a una profonda rimeditazione della riforma universitaria, e soprattutto che abbia in agenda una ‘controriforma’ della recente riforma, notoriamente bipartisan. Anche i ‘nostalgici’ se ne facciano una ragione; il lavoro che ora ci attende consiste nell’applicare al meglio la riforma, per trarre dalle nuove prassi che sapremo adottare un’opportunità di miglioramento del nostro ‘essere Università’. Ciò vale anche a livello locale: il nostro Ateneo ha attraversato – non senza scossoni – la stagione della riforma statutaria, voluta dalla legge Gelmini. Tale stagione ha impegnato tutti noi, ci ha appassionato e si è oggi ‘storicizzata’: non vedo negli organi di Ateneo a cui compete la revisione statutaria, il Senato accademico e il Consiglio di amministrazione, da poco eletti con le nuove regole e in carica sino al 2016, alcuna frenesia di prodursi in un nuovo esercizio costituente. Il che mi sembra assai ragionevole, considerata la naturale ‘rigidità’ di ogni esperienza statutaria. Avviamoci, quindi, con convinzione, anche critica, nella pratica dell’Università riformata, trovando per tale via le soluzioni più adeguate al nostro agire quotidiano; evitiamo di avvitarci – com’è tipico della peggiore politica – in un perpetuo, e spesso inconcludente, discorso sulle regole del ‘gioco’. Piuttosto, sperimentiamole ‘giocando’: rimbocchiamoci le maniche, esercizio – questo sì – assai impellente in un momento così difficile per l’intera Nazione, mettendo sempre più impegno nel nostro lavoro, nella didattica, nella ricerca, nei servizi, per venire fuori dalla crisi, presto e bene, per provare ad avviare nuovi percorsi di crescita, superando le tante difficoltà congiunturali che oggi ‘ingessano’ l’azione del nostro Ateneo. Ci sarà tempo, esaurita la sperimentazione, per ritornare a discutere delle regole (ivi comprese le norme statutarie che disciplinano le modalità di scelta dei consiglieri di amministrazione) e per correggere quelle che hanno fatto peggiore prova.

Una proposta concreta: attribuire il coordinamento alle segreterie di direzione

Con sano realismo, che senso ha scomodarci in riforme statutarie, che rischiano soltanto di rallentare i processi, condannandoci a un’infinita transizione, per ripristinare le “segreterie amministrative dei dipartimenti” del tempo che fu e l’afferenza (invero mai prevista) del personale tecnico-amministrativo ai dipartimenti? Ammesso per un istante, ma non concesso, che la proposta del collega Pignataro sia praticabile dal punto di vista giuridico, non è ben più semplice – come ho già suggerito in occasione dell’intervista rilasciata a Telejonica lo scorso 29 novembre – guardare avanti, com’è tipico della cultura riformista, migliorando il nuovo modello organizzativo attraverso un potenziamento delle attuali segreterie di direzione, a cui va affidato il coordinamento del ciclo amministrativo-contabile che si svolge presso i poli e che vede coinvolte le singole strutture dirigenziali competenti per materia? Ritengo, alla luce dell’esperienza già acquisita, che ciò servirebbe (e basterebbe) a rendere più fluido, più celere, più facilmente ‘misurabile’ l’intero ciclo di lavoro che si svolge presso i PAC (soprattutto in quelli a servizio delle aree scientifiche articolate in più dipartimenti), contribuendo così ad assicurare tempi brevi e certi per le procedure di spesa; è noto, infatti, che è stato attivato un monitoraggio costante dei tempi di tali procedure, reso ‘pubblico’ (il Rettore ha inviato una e-mail in tal senso, i dati – aggiornati pressoché quotidianamente – sono accessibili attraverso il portale web di Ateneo; ciò deve continuare a farsi anche in futuro, con il nuovo rettore, in modo da potere individuare eventuali ‘strozzature’, per intervenire rapidamente alla soluzione di ogni eventuale inghippo). Resta inteso, inoltre, che, in qualsiasi momento, il direttore del dipartimento, anche su sollecitazione dei colleghi docenti, può far notare le disfunzioni ai dirigenti, al direttore generale e agli organi competenti, al fine di trovare le soluzioni migliori a vantaggio di quella che è la missione specifica dell’Università: fare ottima didattica e ottima ricerca. Il che costituisce esclusiva competenza e responsabilità dei docenti.

Lautonomia dei dipartimenti: evitare i fraintendimenti

Quanto poi all’afferenza o, più correttamente, all’assegnazione del personale tecnico-amministrativo ai dipartimenti, Pignataro crede davvero che servano addirittura delle modifiche statutarie perché ciò sia fatto? Ma allora i tecnici e gli amministrativi che vediamo prestare quotidianamente il loro servizio presso i dipartimenti e a supporto degli stessi a chi sono stati concretamente assegnati? Dov’è in ciò la differenza ‘radicale’ con gli altri Atenei che elenca in tabella?
Cosa in sostanza, però, è cambiato? Il personale tecnico-amministrativo non dipende più dal direttore del dipartimento, non è più legato allo stesso da vincoli di tipo gerarchico (ma, come ho detto, è la legge che lo prescrive) e si è attivata una procedura di gestione e di organizzazione del personale che fa capo alla direzione generale e alla dirigenza dell’Ateneo, inevitabile dato che è il management universitario a esserne responsabile in modo stringente a seguito della riforma. Un’attività amministrativo-contabile che non dipende più dal direttore del dipartimento. Tutto ciò mette in discussione l’autonomia dei dipartimenti?
Ritengo che alla base di questa affermazione (sensazione, se si vuole, in qualche caso) vi sia un fraintendimento. Le norme di legge, ovviamente recepite dal nostro statuto, confermano senz’altro la centralità istituzionale dellazione didattica e di ricerca, rispetto alla quale le attività tecnico-amministrative assumono valenza ausiliaria, servono cioè a consentire proprio il migliore svolgimento della missione specifica dell’Università, che – lo ripeto – consiste nel fare didattica e ricerca, possibilmente eccellenti. Quando Pignataro parla di autonomia gestionale dei dipartimenti, a cosa può correttamente riferirsi se non a ciò? Ma nessuno l’ha mai messa in discussione. Può anche darsi che qualche docente, qualche dirigente, qualche funzionario – nella fase di transizione – abbia male interpretato la nuova situazione. La ‘correzione’ però non richiede modifiche di statuto, ma una pratica corretta, orientata al servizio e al problem solving, distante dall’approccio burocratico e caratterizzata dal metodo del dialogo e del rispetto della professionalità di ciascuno.
Se teniamo presente questo principio, la situazione apparirà nella sua reale dimensione: tutto dipenderà da una prassi di lavoro che, se ben governata, produrrà solo effetti positivi. Provo a riflettere, anche per rendere concreto il mio discorso, riferendomi alla mia esperienza di preside. Spesso mi sono trovato a firmare carte dai contenuti del tutto estranei alle mie effettive conoscenze, e pertanto per me sostanzialmente incomprensibili. Per esempio, tante volte ho dovuto attestare la congruità del prezzo di una certa cosa (cioè, di qualsiasi cosa) rispetto ai prezzi di mercato. Ma io non avevo alcuna idea dei prezzi di mercato, né ritenevo (sarà pure un mio limite) di dovermi impegnare direttamente in indagini del genere a scapito della mia attività didattica e scientifica. Di più, a scapito della mia precipua attività di preside, cioè di coordinatore dell’attività didattica della Facoltà e delle connesse iniziative culturali sulle quali ho profuso, com’è noto, molta energia. Nei fatti, non potevo che affidarmi all’ufficio amministrativo che compilava la pratica (il vecchio CGA), restando però in capo a me ogni responsabilità in ordine a quanto firmavo, pur se con scarsa consapevolezza.
Ebbene, non è oggi obiettivamente meglio che il docente non abbia più questa responsabilità? Non debba cioè più assumere compiti che sicuramente fuoriescono dalle sue reali competenze professionali e dai suoi effettivi interessi culturali e scientifici? E ciò non ci consente di recuperare tempo e concentrazione per le nostre attività ‘istituzionali’?
Anch’io, nella fase iniziale della riorganizzazione amministrativa, ho avuto momenti di disorientamento. Le procedure mi sono sembrate complicate, in qualche caso limitanti. Ovviamente, faccio esempi legati alla mia esperienza di studioso di storia, ma ciascuno potrebbe estenderli al suo campo di attività. Per quel che mi riguarda, non riuscivo a comprendere perché, per esempio, non potessero essermi rimborsate le spese per libri acquistati in una libreria antiquaria all’estero. La normativa nazionale è però rigida: a tacer d’altro, va assicurata la tracciabilità dei pagamenti, va verificata la posizione di regolarità contributiva del venditore nei confronti dei suoi dipendenti, sussistono adempimenti fiscali assai rigorosi, vanno rispettate le norme del codice dei contratti pubblici, anche al fine di garantire la correttezza e l’imparzialità dell’agire amministrativo, occorre rispettare le norme sempre più complesse in materia di contabilità pubblica. Tutte attività che richiedono specifiche competenze professionali, che non appartengono ai docenti, e che costituiscono invero il mestiere quotidiano dei dirigenti, dei funzionari, del personale tecnico-amministrativo, ai quali spetta il compito di trovare soluzioni compatibili con il quadro normativo e tuttavia idonee a soddisfare talune esigenze di speditezza che caratterizzano l’azione didattico-scientifica. Restando al caso che allora mi assillava, quello dell’acquisto di un testo raro, trovato quasi per caso, frequentando all’estero una libreria antiquaria, ho appreso che si può ovviare utilizzando la cosiddetta procedura per acquisti in urgenza, utilizzando la carta di credito di cui dispongono i servizi provveditorali di Ateneo, su richiesta del direttore del dipartimento di appartenenza, a cui spetta valutare l’effettivo carattere di urgenza dell’acquisto da effettuarsi (sempre che i fondi di ricerca o le dotazioni dipartimentali lo permettano… ma questo, ahinoi, è un altro discorso).
Non si tratta allora di entrare in contrapposizione con l’impiegato o col suo dirigente, quasi che non si appartenga alla medesima comunità universitaria, quasi che si abbiano interessi confliggenti e non piuttosto sinergici; si tratta, invece, di prendere atto (come sempre) del quadro normativo esistente, augurandoci semmai che possa migliorare e semplificarsi in futuro, individuando, nel frattempo, una prassi di risoluzione di eventuali problemi pratici in modo concreto ed efficace.

Altri disagi e unaltra proposta concreta

Uno dei problemi pratici che più spesso i colleghi dei dipartimenti ‘scientifici’ mi sottopongono riguarda il ruolo del personale tecnico impegnato nei servizi di laboratorio. Non c’è dubbio che tale personale è sempre più impegnato in attività connesse al rispetto della rigida normativa in materia di sicurezza nei luoghi di studio e di lavoro: dalla manutenzione delle attrezzature al corretto smaltimento dei rifiuti; dalla fornitura dei dispositivi di protezione al controllo del rispetto delle prescrizioni di legge. Tutto ciò, è bene dirlo, costituisce una priorità: lo impone la legge, lo impone il buon senso. Soprattutto in un ateneo come il nostro, che ha vissuto tristissime esperienze nel suo recente passato e che è riuscito a venirne fuori, con importanti investimenti proprio nel settore della sicurezza, in particolare nei laboratori, tali da farne oggi un punto di riferimento per l’intero sistema universitario, con importanti riconoscimenti che ci provengono dalle migliori realtà nazionali, un tempo assai più avanzate della nostra sul terreno della politiche e dei servizi di sicurezza nei luoghi universitari di lavoro.
Un impegno così gravoso, tuttavia, malgrado i migliori propositi, difficilmente consente ai nostri tecnici di laboratorio di dedicarsi, per come occorre, a supporto delle attività didattiche e di ricerca condotte dai docenti. Il problema può essere intanto attenuato attraverso una più attenta programmazione delle attività, per provare a conciliare lo sforzo in materia di sicurezza e l’esigenza di coadiuvare il docente nel contesto didattico-scientifico. Ma ciò non basta. La verità è che i tecnici di laboratorio sono troppo pochi, soltanto 80 per l’intero Ateneo; il loro numero si è progressivamente ridotto a causa dei pensionamenti non compensati da nuove assunzioni per via del blocco del turn over (reso ancora più stringente dalle ultime norme di legge in materia di spending review). E ciò riguarda il personale tecnico-amministrativo in generale, con conseguenti inevitabili riflessi negativi sulla qualità complessiva dei servizi. Si pensi a quel che sta accadendo all’Università di Roma ‘La Sapienza’, coi docenti costretti al ruolo di ‘commessi di sala’ per consentire l’apertura delle biblioteche. E ciò avviene a Roma, ove operano 5.377 unità di personale tecnico-amministrativo di ruolo a fronte di 4.767 docenti (con un rapporto PTA/docenti pari a 1,12). Che dire di Catania, ove tale rapporto è pari a 0,63, con 879 tecnici e amministrativi di ruolo – fortunatamente supportati da 320 precari in corso di stabilizzazione, presenti, tuttavia, in numero fors’anche maggiore, nelle altre Università – e 1.389 docenti? Che dire di Catania, che è l’ateneo, fra i mega-atenei (Bologna, Firenze, Milano, Napoli ‘Federico II’, Padova, Roma ‘La Sapienza’, Torino) e gli atenei siciliani di Messina e di Palermo, con il peggiore rapporto PTA/docenti, con il numero più basso di personale tecnico-amministrativo in servizio? Si favoleggia sui compensi dei dirigenti, stabiliti per legge e dalla contrattazione nazionale, e non si dice che la spesa complessiva per la retribuzione dell’apparato tecnico-amministrativo è la più bassa in assoluto rispetto agli atenei citati: un esempio per tutti, l’Università di Messina, di dimensioni notevolmente inferiori alla nostra, spende oltre 52 milioni di euro; Palermo arriva a circa 70 milioni; Catania si ferma a circa 40 milioni (il dato è quello ufficiale del 2010; la previsione per il 2013 è inferiore ai 35 milioni).
Riflettendo a partire da questi dati, che evidenziano uno squilibrio strutturale nel contesto del nostro Ateneo, forse si può comprendere meglio la scelta organizzativa dei poli: con poco personale a disposizione si è reso necessario operare una politica di ‘dimensionamento’, in analogia a quanto sta accadendo nel sistema scolastico, con lo stesso personale tecnico-amministrativo a servizio di una pluralità di strutture didattiche. Così possiamo comprendere le basi oggettive del disagio, che si genera in particolare allorquando le strutture dipartimentali servite dallo stesso polo sono troppe o non sono propriamente vicine (e qui il crescente supporto della telematica dovrebbe in qualche modo attenuare l’inconveniente).
Per risolvere definitivamente il problema, l’Ateneo è chiamato a fare delle scelte di natura strategica: vogliamo migliori servizi? E allora non basta continuare ariorganizzarli, lamentandoci con pari continuità. Salvaguardato il processo di stabilizzazione, che va condotto in porto, occorre prevedere investimenti anche nel settore tecnico-amministrativo, per potenziare, con innesti di qualità, utilizzando ogni formula consentita dalla normativa in materia, i settori più deboli della nostra macchina organizzativa, come appunto il coordinamento dei servizi di polo in capo alle segreterie di direzione e i servizi tecnici di laboratorio. Non si tratta di cifre enormi, ma servono nellimmediato almeno 500.000 euro, che sono tanti in considerazione delle decrescenti risorse economiche a disposizione dell’Ateneo, ma che vanno trovati nelle pieghe del nostro bilancio, complessivamente ‘sano’, in particolare impiegando parte delle economie che verranno prodotte, progressivamente, nei prossimi quattro anni (per complessivi 10 milioni di euro circa a regime, a conclusione del periodo 2012/2016, di cui oltre 3,6 milioni di euro già nel 2013) dal trasferimento a carico del servizio sanitario del personale impiegato dal Policlinico. La vertenza con la Regione Siciliana assume a questo punto i connotati di una ‘battaglia di sopravvivenza’, nell’interesse dei precari dell’Ateneo, che attendono di essere stabilizzati, e dell’Ateneo nel suo complesso, che può trarre linfa vitale per il suo sviluppo. Al nuovo Governo regionale questa situazione va rappresentata con la massima urgenza: ne va della vita del sistema universitario regionale.

Per concludere

Non serve a nessuno, fa solo danno a tutti, creare contrapposizioni ‘funzionali’ tra docenza e amministrazione; vanno piuttosto individuati e praticati rapporti corretti e azioni efficaci. I problemi, nella quotidianità, non sono mancati e non mancheranno, certo. Ma nel complesso, dopo tanti anni di esperienza istituzionale, ritengo che le difficoltà pratiche siano legate, più che a formule organizzative (che in ogni caso vanno costantemente, per metodo, verificate e, ove occorra, modificate), alle competenze e a taluni ‘vizi storici’ della burocrazia amministrativa, ma anche – lasciatemelo dire – alle capacità/incapacità della componente docente di programmare per tempo le proprie attività. Un impegno a meglio calendarizzare didattica e ricerca (e le attività ad esse connesse) renderebbe tutto più semplice. Bisogna mettere a regime la macchina, proviamoci tutti con serenità e, allo stesso tempo, con serietà e con rigore. Non v’è alcun dubbio: l’Università, per migliorare la sua performance, ha bisogno di un apparato tecnico-amministrativo efficiente e di qualità. Di più, dobbiamo pretendere efficienza e qualità da parte di tutti coloro che animano la comunità universitaria, anzitutto per assicurare i migliori servizi ai nostri studenti, vera ragion d’essere dell’istituzione universitaria. E questo vale anche per noi docenti. Quante volte, e mi scuso se ricorro ancora una volta all’esperienza maturata nel corso della mia attività di preside, ho dovuto invitare i colleghi a non cambiare continuamente le date degli esami perché ciò aveva un effetto negativo sulla programmazione delle attività degli studenti?
Abbiamo necessità e urgenza di migliorare il nostro impegno e la nostra attività; ciò vale per tutto l’Ateneo, non semplicemente per il collega del tavolo accanto o per la singola unità di personale tecnico-amministrativo.

Enrico Iachello

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