Sta
suscitando attenzione (per pietà, Rettore e candidato Vecchio, non
lo inviate più: lo abbiamo avuto nella nostra mail, moltiplicato in
invii ripetuti. Va bene, l'abbiamo ricevuto e letto; non è che
l'invio multiplo produca effetti 'di rinforzo', al contrario, fa
correre il rischio di saturazione) e molto scalpore il documento del
CUN sulla situazione dell'Università italiana. E già questo
potrebbe essere un merito: portare l'attenzione di un Paese
'distratto' da altre priorità sull'emergenza 'Università'.
Non
c'è dubbio, la situazione dell'Università italiana è critica,
drammatica. Le poche risorse che lo Stato investiva nel sistema
universitario (poche, soprattutto se paragonate al resto dei Paesi
europei) si sono ulteriormente assottigliate, ponendo il sistema in
seria difficoltà. Occorre, tuttavia, ammettere – ed è difficile
farlo da parte di chi opera quotidianamente all’interno del sistema
universitario – che è il Paese a essere complessivamente più
povero, un Paese che si trova a fare scelte tali da incidere sui
bisogni primari della cittadinanza (dalla sanità, al sistema
assistenziale nel suo complesso, alle pensioni) e che si pone il
problema prioritario di salvaguardare posti di lavoro, rimettendo in
discussione diritti che si ritenevano acquisiti per sempre e che ora
da più parti si è spinti a ripensare. Non è allora semplice
'distrazione' – rispetto alle vicende universitarie – quella
della pur miope classe politica nazionale (sempre più incapace di
adottare strategie di lungo periodo). A meno di non volere raccontare
favole – e lo stesso Bersani, cioè la sinistra, che dovrebbe
essere più sensibile ai problemi dell’istruzione come fattore di
mobilità sociale, lo dice chiaramente – il fatto è che ormai
occorre definire un quadro complessivo di compatibilità
finanziarie. In altri termini, se proponi investimenti ti devi
misurare con la loro redditività e soprattutto devi indicare da dove
si prendono, da dove si tolgono, le risorse per finanziarli.
Questa è oggi la situazione reale. Lo stesso Berlusconi ha dovuto
attrezzare in questo modo la sua retorica populista quando ha
proposto di restituire in contanti (ridono ancora le fanciulle di
Tracia) l'IMU versata dai contribuenti.
Sto
cercando di dire che il documento del CUN rischia di approntare
l'ennesimo alibi per il sistema universitario, in modo che la
'colpa' non sia mai nostra, ma degli altri, 'cattivi' per
definizione. Che importa se dopo Berlusconi è arrivato Monti, un
professore universitario? È al servizio delle banche si dice, e così
lo si liquida. Ma Bersani? Cioè, la Sinistra con la S maiuscola? Ma
vi ricordate Berlinguer (Luigi) e Mussi? Sono stati prodighi di
investimenti per il mondo universitario (e non eravamo ancora con lo
spread alle stelle, come poi è accaduto)? Non mi pare. Proviamo
allora a riflettere con serietà e soprattutto proviamo a partire
dalle nostre responsabilità, a meno di non voler mascherare con urla
e strepiti le nostre incapacità.
Si
mena scandalo per la diminuzione del numero degli iscritti. Certo, in
un Paese che ha meno laureati rispetto agli altri Paesi d'Europa, il
dato è segno anch'esso di declino. Ma, chiediamoci, da dove nasce
questo fenomeno? Non è – come suggerisce, in un interessante
articolo su «La Repubblica» del 1 febbraio, Tito Boeri – che si
sta sgonfiando la 'bolla' delle iscrizioni alle lauree triennali?
Queste avevano prodotto l'illusione di un titolo più a portata di
mano per accedere al mercato del lavoro (e il fatto che la
diminuzione sia quasi completamente a carico dei diplomati degli
istituti professionali, cioè dei giovani dei ceti più disagiati,
grida vendetta e rivela quasi il sadismo di un sistema che ha
spacciato illussioni per riforme). Nulla di più falso. Colpa
solo di chi le ha introdotte o colpa anche nostra che non riusciamo a
pensare all'offerta formativa in termini connessi agli sbocchi
lavorativi? Il basso numero di laureati inoltre non si lega con
l'alto numero di fuori corso? A Catania, poi, è tra i più
elevati d'Italia. Di chi la colpa? Del governo 'ladro'? Ma
possiamo continuare a non metterci in discussione e a non assumerci
le nostre responsabilità? Non dobbiamo ammettere che dovremmo
dedicarci di più alla didattica e agli studenti? È più semplice
gridare slogan, certo, e tutti 'mettiamo al centro lo studente'.
Cambiare passo, no? Non dobbiamo investire risorse umane nel
tentativo di recuperare gli studenti a un percorso di studio
'normale'?
Ci
stiamo confrontando in una competizione per l'elezione del rettore. E
che leggo nei programmi dei miei colleghi candidati? Vecchio
propone la panacea delle fondazioni, come se non sapessimo che
esse hanno un vero senso solo se attirano risorse private, cosa nel
nostro territorio – e ora con questa crisi! – sempre difficilissima.
Mentre la legge sulla spending review scoraggia il
trasferimento di denaro pubblico alle fondazioni, avviene invece che
la Regione Siciliana (governo Lombardo, quello stesso governo
regionale che ha quasi azzerato i contributi per le biblioteche
universitarie) concede un finanziamento per più di 3 milioni di euro
all’Università di Catania, denari che dovrebbero, però, essere
gestiti in buona parte proprio attraverso una fondazione, e per di
più con riferimento ad attività per le quali certo non mancano
competenze nei dipartimenti dell’Ateneo. Su tale questione, il
Consiglio di amministrazione del nostro Ateneo, accogliendo unanime
l’indicazione del collega Pietropaolo e mia, ha sollecitato il
pieno coinvolgimento dei dipartimenti universitari, sottolineando che
occorre instaurare con la Regione una proficua e corretta
interlocuzione istituzionale, tale da consentire la definizione di
linee di priorità strategiche per gli investimenti negli Atenei, al
fine di assicurare i servizi essenziali (tra questi, l’acquisto dei
libri, appunto). Che senso ha, allora, continuare a parlare di
fondazioni, se poi a finanziarle è sempre il denaro pubblico, quello
stesso denaro – invero sempre meno e che costa sempre più
‘lacrime e sangue’ al contribuente – che serve prioritariamente
a supportare l’attività istituzionale dell’Università, la
didattica dei corsi di studio e la ricerca, a partire da quella di
base?
Per
Pignataro la crisi non c'è, è come se non ci fosse; neppure
intravede il rischio di non potere pagare gli stipendi nel 2014.
Parla, piuttosto, di investimenti su tutto, dalla ricerca di base al
pagamento sin dal primo credito per i ricercatori impegnati in
attività didattiche, ma si dimentica di dire da dove ricava i
milioni di euro necessari per farlo, all’interno di un bilancio di
Ateneo sempre più in sofferenza a causa del crollo verticale del
FFO. Pensa di garantire un sostegno adeguato ai corsi di dottorato
soprattutto con risorse esterne (di chi? come? dove?), di 'dare nuova
professionalità agli impiegati' perché svolgano un ruolo
'proattivo'. Ma con quali risorse, da dove prendiamo i denari?
Prevede il collega, a onor del vero 'senza aggravio di costi', di
impegnare alcuni docenti 'stabilmente' nella Scuola superiore. Ma se
a breve non basteremo a sostenere la nostra offerta formativa in base
ai criteri di accreditamento, come sarà possibile? La riduciamo? Non
lo dice il collega.
Si,
lo so, l’ho già detto, questo è il Paese dove è stata avanzata
la ‘proposta choc’ di restituire in contanti l'IMU versata. Ma
noi siamo l'Università, dovremmo almeno provare a non scimmiottare i
peggiori esempi della demagogia elettorale. Di fronte alla dilagante
fiera delle promesse, proviamo – almeno noi – a esercitare il
coraggio della verità.
Enrico
Iachello
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