(Intervento di Antonio Di Grado, pubblicato su «La Sicilia» del 12 febbraio 2012)
Le targhette col mio nome
e quelli dei colleghi, accanto al mio studio universitario, si sono
staccate. Capita, figuriamoci. Solo che mi dicono che al momento
mancano i soldi per comprare la colla.
Perché racconto questo
banale episodio? Perché giorni fa, nell’auditorium del monastero
dei Benedettini, ho assistito alla sfilata dei candidati alla carica
di Rettore. A sentire quasi tutti gli interventi, dei candidati e del
pubblico, sembrava di essere all'Assemblea Costituente nel '46,
oppure al C.d.A. della Banca d'Italia: si parlava di governance,
di investimenti, di magnifiche sorti e progressive. E i due euro per
la colla?
Cosa voglio dire? Che non
ne posso più di vuota retorica e progettualità da imbonitori, buona
solo a nascondere il baratro in cui l'università italiana si sta
inabissando e a imitare le televendite di un ex premier ancora
prodigo di mendaci promesse. Faceva notare Enrico Iachello, l’unico
dei candidati a dire cose concrete e fattibili, che dai primi mesi
dell’anno prossimo potrebbero non esserci più fondi per pagare gli
stipendi: e noi a menarcela con la governance e con la
retorica assemblearista e iperuranica così soavemente (e
irresponsabilmente) “di sinistra”!
Rimpiango Totò: «ma mi
facci il piacere!»... E voterò per Enrico Iachello.
Ho lavorato accanto a lui
in tutti questi anni, gli unici in cui abbia vissuto con gioia e con
orgoglio l’appartenenza a una istituzione universitaria sempre più
screditata e delegittimata, e non solo per colpa di governanti
incolti o di gazzettieri superficiali.
Che questo forte senso
d’identità e di appartenenza io l’abbia sperimentato proprio in
un momento pre-agonico (soprattutto, ahimè, per le facoltà
umanistiche) come questo, lo devo al coraggio, al rigore e
all’inventiva con cui Iachello prese in mano anni fa da preside la
Facoltà di Lettere, riuscendo tra l'altro ad aprire il nostro
splendido monastero al territorio, ad animarlo con continue e
prestigiose iniziative artistiche, a fare della Facoltà (caso,
credo, unico) un soggetto istituzionale e culturale che recitasse un
ruolo da protagonista, talvolta più e meglio degli enti locali in
dissesto, nella politica cittadina.
E questo mi pare già da
solo un risultato che non solo pochi suoi colleghi possono vantare,
costretti come siamo a un ruolo passivo di burocrati e amministratori
acritici d’un desolante status quo, ma che lo candida a Rettore di
un ateneo che non sia tanto azienda quanto, invece, soggetto
culturale attivo e propositivo, in grado di offrire idee e competenze
a una società civile sempre più mortificata e malgovernata.
In quest’impresa,
dicevo, lo affiancai: anche da vicepreside, anche da responsabile
delle attività culturali della Facoltà, ma soprattutto come amico:
che è altro e di più di quei ruoli istituzionali, l’amicizia
essendo dialettica, talora simbiotica e talora conflittuale, comunque
assai più viva e feconda d’una cordata accademica o d’una
parentela politica.
E partigiana, come questa
mia testimonianza. E perché no, se esser di parte significa prender
parte, sposare una causa, sottrarsi al giogo dei potentati, alla rete
degli interessi, all’indifferenza omertosa e all’opaca routine
che ci stanno condannando all’estinzione?
Intanto, la colla la
comprerò io.
Antonio Di Grado
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