martedì 12 febbraio 2013

La retorica assemblearista e i reali problemi dell'Ateneo

(Intervento di Antonio Di Grado, pubblicato su «La Sicilia» del 12 febbraio 2012)


Le targhette col mio nome e quelli dei colleghi, accanto al mio studio universitario, si sono staccate. Capita, figuriamoci. Solo che mi dicono che al momento mancano i soldi per comprare la colla.
Perché racconto questo banale episodio? Perché giorni fa, nell’auditorium del monastero dei Benedettini, ho assistito alla sfilata dei candidati alla carica di Rettore. A sentire quasi tutti gli interventi, dei candidati e del pubblico, sembrava di essere all'Assemblea Costituente nel '46, oppure al C.d.A. della Banca d'Italia: si parlava di governance, di investimenti, di magnifiche sorti e progressive. E i due euro per la colla?
Cosa voglio dire? Che non ne posso più di vuota retorica e progettualità da imbonitori, buona solo a nascondere il baratro in cui l'università italiana si sta inabissando e a imitare le televendite di un ex premier ancora prodigo di mendaci promesse. Faceva notare Enrico Iachello, l’unico dei candidati a dire cose concrete e fattibili, che dai primi mesi dell’anno prossimo potrebbero non esserci più fondi per pagare gli stipendi: e noi a menarcela con la governance e con la retorica assemblearista e iperuranica così soavemente (e irresponsabilmente) “di sinistra”!
Rimpiango Totò: «ma mi facci il piacere!»... E voterò per Enrico Iachello.
Ho lavorato accanto a lui in tutti questi anni, gli unici in cui abbia vissuto con gioia e con orgoglio l’appartenenza a una istituzione universitaria sempre più screditata e delegittimata, e non solo per colpa di governanti incolti o di gazzettieri superficiali.
Che questo forte senso d’identità e di appartenenza io l’abbia sperimentato proprio in un momento pre-agonico (soprattutto, ahimè, per le facoltà umanistiche) come questo, lo devo al coraggio, al rigore e all’inventiva con cui Iachello prese in mano anni fa da preside la Facoltà di Lettere, riuscendo tra l'altro ad aprire il nostro splendido monastero al territorio, ad animarlo con continue e prestigiose iniziative artistiche, a fare della Facoltà (caso, credo, unico) un soggetto istituzionale e culturale che recitasse un ruolo da protagonista, talvolta più e meglio degli enti locali in dissesto, nella politica cittadina.
E questo mi pare già da solo un risultato che non solo pochi suoi colleghi possono vantare, costretti come siamo a un ruolo passivo di burocrati e amministratori acritici d’un desolante status quo, ma che lo candida a Rettore di un ateneo che non sia tanto azienda quanto, invece, soggetto culturale attivo e propositivo, in grado di offrire idee e competenze a una società civile sempre più mortificata e malgovernata.
In quest’impresa, dicevo, lo affiancai: anche da vicepreside, anche da responsabile delle attività culturali della Facoltà, ma soprattutto come amico: che è altro e di più di quei ruoli istituzionali, l’amicizia essendo dialettica, talora simbiotica e talora conflittuale, comunque assai più viva e feconda d’una cordata accademica o d’una parentela politica.
E partigiana, come questa mia testimonianza. E perché no, se esser di parte significa prender parte, sposare una causa, sottrarsi al giogo dei potentati, alla rete degli interessi, all’indifferenza omertosa e all’opaca routine che ci stanno condannando all’estinzione?
Intanto, la colla la comprerò io.
Antonio Di Grado

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