giovedì 11 ottobre 2012

Essere comunità

Ringrazio Antonio, Carmelo e Valter per la loro testimonianza di amicizia. Quando si lavora insieme e si riesce a far crescere e cementare un legame di vera amicizia (così è nata la nostra), credo che si possa già essere soddisfatti, al di là dei risultati. Nel nostro caso però i risultati ci sono stati (va detto senza falsa modestia) e Antonio li racconta, da protagonista, con lucidità e partecipazione, riuscendo persino a commuovermi. Perché non dirlo? Nell'essere studiosi impegnati nel governo della Facoltà questo legame non è stato un elemento secondario. Ci ha sorretto, ci ha consentito di parlarci con franchezza ma con affetto, e quindi ci ha permesso di condividere percorsi, proposte, soluzioni. Con un forte senso di appartenenza. Ed è questo sentirsi parte di una comunità che - in una fase difficile come quella attuale - dobbiamo favorire ed accrescere, in accademia e in città. Non stiamo con questi discorsi introducendo elementi impropri o un di più (o un di meno, a seconda dei punti di vista) nella discussione: stiamo sottolineando e valorizzando una componente essenziale che i conflitti e le polemiche sembrano in alcuni momenti svilire, ma che è, a ben pensarci, indispensabile per la vita della nostra istituzione e per il suo ruolo nel territorio. Una identità, una appartenenza appunto.
L'intervento di Carmelo Crimi, direttore del dipartimento di cui faccio parte, pone in modo urgente il dato nuovo su cui ancora stentiamo a riflettere: i dipartimenti non possono essere la replica delle vecchie facoltà. Sarebbe un'occasione mancata immaginarli così. Non possiamo continuare a 'subire' la riforma, dobbiamo valutare le 'occasioni' che offre. In passato c'è stata una riflessione innovativa che proponeva il 'superamento' delle facoltà. Ora è possibile riprendere il discorso e ridefinire l'offerta didattica ancorandola ancor di più alla ricerca. Questo ancoraggio prima era affidato al singolo docente, ora dovremmo immaginarlo frutto di una elaborazione collettiva; in altri termini, dovremmo abituarci a un confronto sui contenuti della ricerca e della didattica, a un progetto formativo frutto di questa riflessione e non semplicemente e banalmente corrispondente ai requisiti tecnici previsti dalla 'griglia' ministeriale. Lamentiamo il burocratismo, ma cosa riusciamo ad elaborare noi in termini di progettazione che entri nel merito e nel metodo del legame didattica e ricerca non individualmente, ma appunto come dipartimento? Non siamo abituati a farlo, ciascuno di noi è geloso della propria 'autonomia'. Nessuno vuol metterla in discussione, il confronto e l'elaborazione di un progetto comune non ledono la libertà di insegnamento. Ma essa non può continuare a tradursi in separatezza. Certo è più semplice rifugiarsi nelle lamentele contro i CFU e altri tecnicismi. Non dovremmo andare oltre il semplice calcolo dei crediti e della distribuzione delle discipline nel piano didattico, e legarla a una riflessione sui 'contenuti'? Chiedo troppo? Ma la 'qualità' che tutti invochiamo come nasce? Dal fatto che la griglia ministeriale dà il 'via libera' ai nostri piani didattici? Ma così ci rendiamo noi subalterni alla burocrazia. Lo so, lo ripeto, che non è facile, ma la situazione è difficile, non possiamo pensare di cavacerla con giaculatorie e piagnistei.

1 commento:

  1. Apprezzo il richiamo di Enrico Iachello allo spirito della comunità.
    Tutti sappiamo che manca nella accademia italiana e non si riesce a portarvelo. Siamo paralizzati da due abitudini opposte: da una parte un individualismo esasperato basato sulla obsoleta "titolarità di insegnamento" (io sono il docente di questa materia e nessuno può dirmi quel che devo fare) e, dall'altra, erratici tentativi di obbligare o censurare.
    Al contrario, dove esiste uno spirito di comunità (dove? nelle migliori università) le cose si fanno per consenso spontaneo, senza che una legge debba imporle.
    E sono d'accordo con Enrico, bisogna cominciare dalla didattica. E' un terreno più facile della ricerca. I progetti di ricerca devono ormai superare giudizi severissimi e senza appello da parte di commissioni e poi devono affrontare la prova dei fatti (o del mercato). La didattica ancora non deve superare giudizi esterni. C'è tempo per aggiustare, correggere migliorare, per affrontare il tempo - comunque non lontano - in cui le università dovrenno contendersi gli studenti attraverso la qualità della formazione che offrono. La didattica si può migliorare senza spendere né risorse né tanto tempo. Bastano consenso e buona volontà per migliorare il coordinamento interno a un corso e quello fra il corso stesso e il suo livello magistrale. Non ci vuole molto a organizzare lezioni comuni o corsi integrati (so che Enrico lo ha fatto). E poi anche seminari interni, in cui presentare informalmente ricerche in progress. Con una doppia utilità: 1) servire agli studenti non solo la minestra delle lezioni ma anche il dessert dei seminari; 2) costruire progressivamente un terreno di coltura per la preparazione di progetti di ricerca candidabili a livello europeo.
    So bene che in un dipartimento universitario sembrerebbe pleonastica, ma non potrebbe giovare costituire una piccola e pugnace commissione culturale? Sarebbe paradossale ma con la burocratizzazione crescente di tutte le nostre attività, forse potrebbe servire a qualcosa.

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